Canto 21
Nel XXI canto si presentano le pene di chi si è macchiato di baratteria, di chi cioè ha curato i propri interessi mentre avrebbe divuto prendersi cura del bene comune.
Qui si incontrano dieci demoni che hanno il compito di gestire questa bolgia.
Così di ponte in ponte, altro parlando che la mia comedìa cantar non cura, venimmo; e tenavamo ’l colmo, quando3 restammo per veder l’altra fessura di Malebolge e li altri pianti vani; e vidila mirabilmente oscura.6 Quale ne l’arzanà de’ Viniziani bolle l’inverno la tenace pece a rimpalmare i legni lor non sani,9 ché navicar non ponno – in quella vece chi fa suo legno novo e chi ristoppa le coste a quel che più vïaggi fece;12 chi ribatte da proda e chi da poppa; altri fa remi e altri volge sarte; chi terzeruolo e artimon rintoppa -:15 tal, non per foco ma per divin’arte, bollia là giuso una pegola spessa, che ’nviscava la ripa d’ogne parte.18 I’ vedea lei, ma non vedëa in essa mai che le bolle che ’l bollor levava, e gonfiar tutta, e riseder compressa.21 Mentr’io là giù fisamente mirava, lo duca mio, dicendo “Guarda, guarda!”, mi trasse a sé del loco dov’io stava.24 Allor mi volsi come l’uom cui tarda di veder quel che li convien fuggire e cui paura sùbita sgagliarda,27 che, per veder, non indugia ’l partire: e vidi dietro a noi un diavol nero correndo su per lo scoglio venire.30 Ahi quant’elli era ne l’aspetto fero! e quanto mi parea ne l’atto acerbo, con l’ali aperte e sovra i piè leggero!33 L’omero suo, ch’era aguto e superbo, carcava un peccator con ambo l’anche, e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo.36 Del nostro ponte disse: “O Malebranche, ecco un de li anzïan di Santa Zita! Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche39 a quella terra, che n’è ben fornita: ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo; del no, per li denar, vi si fa ita”.42 Là giù ’l buttò, e per lo scoglio duro si volse; e mai non fu mastino sciolto con tanta fretta a seguitar lo furo.45 Quel s’attuffò, e tornò sù convolto; ma i demon che del ponte avean coperchio, gridar: “Qui non ha loco il Santo Volto!48 qui si nuota altrimenti che nel Serchio! Però, se tu non vuo’ di nostri graffi, non far sopra la pegola soverchio”.51 Poi l’addentar con più di cento raffi, disser: “Coverto convien che qui balli, sì che, se puoi, nascosamente accaffi”.54 Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli fanno attuffare in mezzo la caldaia la carne con li uncin, perché non galli.57 Lo buon maestro “Acciò che non si paia che tu ci sia”, mi disse, “giù t’acquatta dopo uno scheggio, ch’alcun schermo t’aia;60 e per nulla offension che mi sia fatta, non temer tu, ch’i’ ho le cose conte, perch’altra volta fui a tal baratta”.63 Poscia passò di là dal co del ponte; e com’el giunse in su la ripa sesta, mestier li fu d’aver sicura fronte.66 Con quel furore e con quella tempesta ch’escono i cani a dosso al poverello che di sùbito chiede ove s’arresta,69 usciron quei di sotto al ponticello, e volser contra lui tutt’i runcigli; ma el gridò: “Nessun di voi sia fello!72 Innanzi che l’uncin vostro mi pigli, traggasi avante l’un di voi che m’oda, e poi d’arruncigliarmi si consigli”.75 Tutti gridaron: “Vada Malacoda!”; per ch’un si mosse – e li altri stetter fermi – e venne a lui dicendo: “Che li approda?”.78 “Credi tu, Malacoda, qui vedermi esser venuto”, disse ’l mio maestro, “sicuro già da tutti vostri schermi,81 sanza voler divino e fato destro? Lascian’andar, ché nel cielo è voluto ch’i’ mostri altrui questo cammin silvestro”.84 Allor li fu l’orgoglio sì caduto, ch’e’ si lasciò cascar l’uncino a’ piedi, e disse a li altri: “Omai non sia feruto”.87 E ’l duca mio a me: “O tu che siedi tra li scheggion del ponte quatto quatto, sicuramente omai a me ti riedi”.90 Per ch’io mi mossi e a lui venni ratto; e i diavoli si fecer tutti avanti, sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto;93 così vid’ïo già temer li fanti ch’uscivan patteggiati di Caprona, veggendo sé tra nemici cotanti.96 I’ m’accostai con tutta la persona lungo ’l mio duca, e non torceva li occhi da la sembianza lor ch’era non buona.99 Ei chinavan li raffi e “Vuo’ che ’l tocchi”, diceva l’un con l’altro, “in sul groppone?”. E rispondien: “Sì, fa che gliel’accocchi”.102 Ma quel demonio che tenea sermone col duca mio, si volse tutto presto e disse: “Posa, posa, Scarmiglione!”.105 Poi disse a noi: “Più oltre andar per questo iscoglio non si può, però che giace tutto spezzato al fondo l’arco sesto.108 E se l’andare avante pur vi piace, andatevene su per questa grotta; presso è un altro scoglio che via face.111 Ier, più oltre cinqu’ ore che quest’otta, mille dugento con sessanta sei anni compié che qui la via fu rotta.114 Io mando verso là di questi miei a riguardar s’alcun se ne sciorina; gite con lor, che non saranno rei”.117 “Tra’ ti avante, Alichino, e Calcabrina”, cominciò elli a dire, “e tu, Cagnazzo; e Barbariccia guidi la decina.120 Libicocco vegn’oltre e Draghignazzo, Cirïatto sannuto e Graffiacane e Farfarello e Rubicante pazzo.123 Cercate ’ntorno le boglienti pane; costor sian salvi infino a l’altro scheggio che tutto intero va sovra le tane”.126 “Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?”, diss’io, “deh, sanza scorta andianci soli, se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.129 Se tu se’ sì accorto come suoli, non vedi tu ch’e’ digrignan li denti e con le ciglia ne minaccian duoli?”.132 Ed elli a me: “Non vo’ che tu paventi; lasciali digrignar pur a lor senno, ch’e’ fanno ciò per li lessi dolenti”.135 Per l’argine sinistro volta dienno; ma prima avea ciascun la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno;138 ed elli avea del cul fatto trombetta. |
Canto 22
Nel XXII canto Dante e Virgilio proseguono il cammino attraverso la quinta bolgia, dei fraudolenti, accompagnati dai demoni guidati da Barbariccia.
I due assistono anche alla cattura di Ciampòlo, che riesce a sfuggire ai demoni rituffandosi nella pece, e al bagno di due diavoli nella pece bollente.
Io vidi già cavalier muover campo, e cominciare stormo e far lor mostra, e talvolta partir per loro scampo;3 corridor vidi per la terra vostra, o Aretini, e vidi gir gualdane, fedir torneamenti e correr giostra;6 quando con trombe, e quando con campane, con tamburi e con cenni di castella, e con cose nostrali e con istrane;9 né già con sì diversa cennamella cavalier vidi muover né pedoni, né nave a segno di terra o di stella.12 Noi andavam con li diece demoni. Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni.15 Pur a la pegola era la mia ’ntesa, per veder de la bolgia ogne contegno e de la gente ch’entro v’era incesa.18 Come i dalfini, quando fanno segno a’ marinar con l’arco de la schiena che s’argomentin di campar lor legno,21 talor così, ad alleggiar la pena, mostrav’alcun de’ peccatori ’l dosso e nascondea in men che non balena.24 E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso stanno i ranocchi pur col muso fuori, sì che celano i piedi e l’altro grosso,27 sì stavan d’ogne parte i peccatori; ma come s’appressava Barbariccia, così si ritraén sotto i bollori.30 I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia, uno aspettar così, com’elli ’ncontra ch’una rana rimane e l’altra spiccia;33 e Graffiacan, che li era più di contra, li arruncigliò le ’mpegolate chiome e trassel sù, che mi parve una lontra. I’ sapea già di tutti quanti ’l nome, sì li notai quando fuorono eletti, e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come.39 “O Rubicante, fa che tu li metti li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!”, gridavan tutti insieme i maladetti.42 E io: “Maestro mio, fa, se tu puoi, che tu sappi chi è lo sciagurato venuto a man de li avversari suoi”.45 Lo duca mio li s’accostò allato; domandollo ond’ei fosse, e quei rispuose: “I’ fui del regno di Navarra nato.48 Mia madre a servo d’un segnor mi puose, che m’avea generato d’un ribaldo, distruggitor di sé e di sue cose.51 Poi fui famiglia del buon re Tebaldo; quivi mi misi a far baratteria, di ch’io rendo ragione in questo caldo”.54 E Cirïatto, a cui di bocca uscia d’ogne parte una sanna come a porco, li fé sentir come l’una sdruscia.57 Tra male gatte era venuto ’l sorco; ma Barbariccia il chiuse con le braccia e disse: “State in là, mentr’io lo ’nforco”.60 E al maestro mio volse la faccia; “Domanda”, disse, “ancor, se più disii saper da lui, prima ch’altri ’l disfaccia”.63 Lo duca dunque: “Or dì: de li altri rii conosci tu alcun che sia latino sotto la pece?”. E quelli: “I’ mi partii,66 poco è, da un che fu di là vicino. Così foss’io ancor con lui coperto, ch’i’ non temerei unghia né uncino!”.69 E Libicocco “Troppo avem sofferto”, disse; e preseli ’l braccio col runciglio, sì che, stracciando, ne portò un lacerto.72 Draghignazzo anco i volle dar di piglio giuso a le gambe; onde ’l decurio loro si volse intorno intorno con mal piglio.75 Quand’elli un poco rappaciati fuoro, a lui, ch’ancor mirava sua ferita, domandò ’l duca mio sanza dimoro:78 “Chi fu colui da cui mala partita di’ che facesti per venire a proda?”. Ed ei rispuose: “Fu frate Gomita,81 quel di Gallura, vasel d’ogne froda, ch’ebbe i nemici di suo donno in mano, e fé sì lor, che ciascun se ne loda.84 Danar si tolse e lasciolli di piano, sì com’e’ dice; e ne li altri offici anche barattier fu non picciol, ma sovrano.87 Usa con esso donno Michel Zanche di Logodoro; e a dir di Sardigna le lingue lor non si sentono stanche.90 Omè, vedete l’altro che digrigna; i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello non s’apparecchi a grattarmi la tigna”.93 E ’l gran proposto, vòlto a Farfarello che stralunava li occhi per fedire, disse: “Fatti ’n costà, malvagio uccello!”.96 “Se voi volete vedere o udire”, ricominciò lo spaürato appresso, “Toschi o Lombardi, io ne farò venire;99 ma stieno i Malebranche un poco in cesso, sì ch’ei non teman de le lor vendette; e io, seggendo in questo loco stesso,102 per un ch’io son, ne farò venir sette quand’io suffolerò, com’è nostro uso di fare allor che fori alcun si mette”.105 Cagnazzo a cotal motto levò ’l muso, crollando ’l capo, e disse: “Odi malizia ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!”.108 Ond’ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia, rispuose: “Malizioso son io troppo, quand’io procuro a’ mia maggior trestizia”.111 Alichin non si tenne e, di rintoppo a li altri, disse a lui: “Se tu ti cali, io non ti verrò dietro di gualoppo,114 ma batterò sovra la pece l’ali. Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo, a veder se tu sol più di noi vali”.117 O tu che leggi, udirai nuovo ludo: ciascun da l’altra costa li occhi volse, quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.120 Lo Navarrese ben suo tempo colse; fermò le piante a terra, e in un punto saltò e dal proposto lor si sciolse.123 Di che ciascun di colpa fu compunto, ma quei più che cagion fu del difetto; però si mosse e gridò: “Tu se’ giunto!”.126 Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto non potero avanzar; quelli andò sotto, e quei drizzò volando suso il petto:129 non altrimenti l’anitra di botto, quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa, ed ei ritorna sù crucciato e rotto.132 Irato Calcabrina de la buffa, volando dietro li tenne, invaghito che quei campasse per aver la zuffa;135 e come ’l barattier fu disparito, così volse li artigli al suo compagno, e fu con lui sopra ’l fosso ghermito.138 Ma l’altro fu bene sparvier grifagno ad artigliar ben lui, e amendue cadder nel mezzo del bogliente stagno.141 Lo caldo sghermitor sùbito fue; ma però di levarsi era neente, sì avieno inviscate l’ali sue.144 Barbariccia, con li altri suoi dolente, quattro ne fé volar da l’altra costa con tutt’i raffi, e assai prestamente147 di qua, di là discesero a la posta; porser li uncini verso li ’mpaniati, ch’eran già cotti dentro da la crosta.150 E noi lasciammo lor così ’mpacciati. |
Canto 23
Nel XXIII canto Dante e Virgilio attraversano la sesta bolgia dove sono puniti gli ipocriti.
Questi sono obbligati a camminare sotto pesantissime cappe di piombo.
Taciti, soli, sanza compagnia n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo, come frati minor vanno per via.3 Vòlt’era in su la favola d’Isopo lo mio pensier per la presente rissa, dov’el parlò de la rana e del topo;6 ché più non si pareggia ’mo’ e ’issa’ che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia principio e fine con la mente fissa.9 E come l’un pensier de l’altro scoppia, così nacque di quello un altro poi, che la prima paura mi fé doppia.12 Io pensava così: ’Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa sì fatta, ch’assai credo che lor nòi.15 Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa, ei ne verranno dietro più crudeli che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’.18 Già mi sentia tutti arricciar li peli de la paura e stava in dietro intento, quand’io dissi: “Maestro, se non celi21 te e me tostamente, i’ ho pavento d’i Malebranche. Noi li avem già dietro; io li ’magino sì, che già li sento”.24 E quei: “S’i’ fossi di piombato vetro, l’imagine di fuor tua non trarrei più tosto a me, che quella dentro ’mpetro.27 Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei, con simile atto e con simile faccia, sì che d’intrambi un sol consiglio fei.30 S’elli è che sì la destra costa giaccia, che noi possiam ne l’altra bolgia scendere, noi fuggirem l’imaginata caccia”.33 Già non compié di tal consiglio rendere, ch’io li vidi venir con l’ali tese non molto lungi, per volerne prendere.36 Lo duca mio di sùbito mi prese, come la madre ch’al romore è desta e vede presso a sé le fiamme accese,39 che prende il figlio e fugge e non s’arresta, avendo più di lui che di sé cura, tanto che solo una camiscia vesta;42 e giù dal collo de la ripa dura supin si diede a la pendente roccia, che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.45 Non corse mai sì tosto acqua per doccia a volger ruota di molin terragno, quand’ella più verso le pale approccia,48 come ’l maestro mio per quel vivagno, portandosene me sovra ’l suo petto, come suo figlio, non come compagno.51 A pena fuoro i piè suoi giunti al letto del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle sovresso noi; ma non lì era sospetto:54 ché l’alta provedenza che lor volle porre ministri de la fossa quinta, poder di partirs’indi a tutti tolle.57 Là giù trovammo una gente dipinta che giva intorno assai con lenti passi, piangendo e nel sembiante stanca e vinta.60 Elli avean cappe con cappucci bassi dinanzi a li occhi, fatte de la taglia che in Clugnì per li monaci fassi.63 Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, che Federigo le mettea di paglia.66 Oh in etterno faticoso manto! Noi ci volgemmo ancor pur a man manca con loro insieme, intenti al tristo pianto;69 ma per lo peso quella gente stanca venìa sì pian, che noi eravam nuovi di compagnia ad ogne mover d’anca.72 Per ch’io al duca mio: “Fa che tu trovi alcun ch’al fatto o al nome si conosca, e li occhi, sì andando, intorno movi”.75 E un che ’ntese la parola tosca, di retro a noi gridò: “Tenete i piedi, voi che correte sì per l’aura fosca!78 Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi”. Onde ’l duca si volse e disse: “Aspetta, e poi secondo il suo passo procedi”.81 Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta de l’animo, col viso, d’esser meco; ma tardavali ’l carco e la via stretta.84 Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco mi rimiraron sanza far parola; poi si volsero in sé, e dicean seco:87 “Costui par vivo a l’atto de la gola; e s’e’ son morti, per qual privilegio vanno scoperti de la grave stola?”.90 Poi disser me: “O Tosco, ch’al collegio de l’ipocriti tristi se’ venuto, dir chi tu se’ non avere in dispregio”.93 E io a loro: “I’ fui nato e cresciuto sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa, e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto.96 Ma voi chi siete, a cui tanto distilla quant’i’ veggio dolor giù per le guance? e che pena è in voi che sì sfavilla?”.99 E l’un rispuose a me: “Le cappe rance son di piombo sì grosse, che li pesi fan così cigolar le lor bilance.102 Frati godenti fummo, e bolognesi; io Catalano e questi Loderingo nomati, e da tua terra insieme presi105 come suole esser tolto un uom solingo, per conservar sua pace; e fummo tali, ch’ancor si pare intorno dal Gardingo”.108 Io cominciai: “O frati, i vostri mali…”; ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse un, crucifisso in terra con tre pali.111 Quando mi vide, tutto si distorse, soffiando ne la barba con sospiri; e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse,114 mi disse: “Quel confitto che tu miri, consigliò i Farisei che convenia porre un uom per lo popolo a’ martìri.117 Attraversato è, nudo, ne la via, come tu vedi, ed è mestier ch’el senta qualunque passa, come pesa, pria.120 E a tal modo il socero si stenta in questa fossa, e li altri dal concilio che fu per li Giudei mala sementa”.123 Allor vid’io maravigliar Virgilio sovra colui ch’era disteso in croce tanto vilmente ne l’etterno essilio.126 Poscia drizzò al frate cotal voce: “Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci s’a la man destra giace alcuna foce129 onde noi amendue possiamo uscirci, sanza costrigner de li angeli neri che vegnan d’esto fondo a dipartirci”.132 Rispuose adunque: “Più che tu non speri s’appressa un sasso che da la gran cerchia si move e varca tutt’i vallon feri,135 salvo che ’n questo è rotto e nol coperchia; montar potrete su per la ruina, che giace in costa e nel fondo soperchia”.138 Lo duca stette un poco a testa china; poi disse: “Mal contava la bisogna colui che i peccator di qua uncina”.141 E ’l frate: “Io udi’ già dire a Bologna del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’ ch’elli è bugiardo e padre di menzogna”.144 Appresso il duca a gran passi sen gì, turbato un poco d’ira nel sembiante; ond’io da li ’ncarcati mi parti’147 dietro a le poste de le care piante. |
Canto 24
Nel XXIV canto Dante e Virgilio incontrano una serie di ladri. Dante lancia un’invettiva contro Pistoia città che ha dato i natali a molti di loro.
Vanni Pucci, un ladro pistoiese fa una profezia relativa all’avvicendamento tra guelfi bianchi e neri. E dice questo con la sola intenzione di ferire il poeta.
In quella parte del giovanetto anno che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra e già le notti al mezzo dì sen vanno,3 quando la brina in su la terra assempra l’imagine di sua sorella bianca, ma poco dura a la sua penna tempra,6 lo villanello a cui la roba manca, si leva, e guarda, e vede la campagna biancheggiar tutta; ond’ei si batte l’anca,9 ritorna in casa, e qua e là si lagna, come ’l tapin che non sa che si faccia; poi riede, e la speranza ringavagna,12 veggendo ’l mondo aver cangiata faccia in poco d’ora, e prende suo vincastro e fuor le pecorelle a pascer caccia.15 Così mi fece sbigottir lo mastro quand’io li vidi sì turbar la fronte, e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro;18 ché, come noi venimmo al guasto ponte, lo duca a me si volse con quel piglio dolce ch’io vidi prima a piè del monte.21 Le braccia aperse, dopo alcun consiglio eletto seco riguardando prima ben la ruina, e diedemi di piglio.24 E come quei ch’adopera ed estima, che sempre par che ’nnanzi si proveggia, così, levando me sù ver’ la cima27 d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia dicendo: “Sovra quella poi t’aggrappa; ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia”.30 Non era via da vestito di cappa, ché noi a pena, ei lieve e io sospinto, potavam sù montar di chiappa in chiappa.33 E se non fosse che da quel precinto più che da l’altro era la costa corta, non so di lui, ma io sarei ben vinto.36 Ma perché Malebolge inver’ la porta del bassissimo pozzo tutta pende, lo sito di ciascuna valle porta39 che l’una costa surge e l’altra scende; noi pur venimmo al fine in su la punta onde l’ultima pietra si scoscende.42 La lena m’era del polmon sì munta quand’io fui sù, ch’i’ non potea più oltre, anzi m’assisi ne la prima giunta.45 “Omai convien che tu così ti spoltre”, disse ’l maestro; “ché, seggendo in piuma, in fama non si vien, né sotto coltre;48 sanza la qual chi sua vita consuma, cotal vestigio in terra di sé lascia, qual fummo in aere e in acqua la schiuma.51 E però leva sù; vinci l’ambascia con l’animo che vince ogne battaglia, se col suo grave corpo non s’accascia.54 Più lunga scala convien che si saglia; non basta da costoro esser partito. Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia”.57 Leva’ mi allor, mostrandomi fornito meglio di lena ch’i’ non mi sentia, e dissi: “Va, ch’i’ son forte e ardito”.60 Su per lo scoglio prendemmo la via, ch’era ronchioso, stretto e malagevole, ed erto più assai che quel di pria.63 Parlando andava per non parer fievole; onde una voce uscì de l’altro fosso, a parole formar disconvenevole.66 Non so che disse, ancor che sovra ’l dosso fossi de l’arco già che varca quivi; ma chi parlava ad ire parea mosso.69 Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi non poteano ire al fondo per lo scuro; per ch’io: “Maestro, fa che tu arrivi72 da l’altro cinghio e dismontiam lo muro; ché, com’i’ odo quinci e non intendo, così giù veggio e neente affiguro”.75 “Altra risposta”, disse, “non ti rendo se non lo far; ché la dimanda onesta si de’ seguir con l’opera tacendo”.78 Noi discendemmo il ponte da la testa dove s’aggiugne con l’ottava ripa, e poi mi fu la bolgia manifesta:81 e vidivi entro terribile stipa di serpenti, e di sì diversa mena che la memoria il sangue ancor mi scipa.84 Più non si vanti Libia con sua rena; ché se chelidri, iaculi e faree produce, e cencri con anfisibena,87 né tante pestilenzie né sì ree mostrò già mai con tutta l’Etïopia né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.90 Tra questa cruda e tristissima copia corrëan genti nude e spaventate, sanza sperar pertugio o elitropia:93 con serpi le man dietro avean legate; quelle ficcavan per le ren la coda e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.96 Ed ecco a un ch’era da nostra proda, s’avventò un serpente che ’l trafisse là dove ’l collo a le spalle s’annoda.99 Né O sì tosto mai né I si scrisse, com’el s’accese e arse, e cener tutto convenne che cascando divenisse;102 e poi che fu a terra sì distrutto, la polver si raccolse per sé stessa e ’n quel medesmo ritornò di butto.105 Così per li gran savi si confessa che la fenice more e poi rinasce, quando al cinquecentesimo anno appressa;108 erba né biado in sua vita non pasce, ma sol d’incenso lagrime e d’amomo, e nardo e mirra son l’ultime fasce.111 E qual è quel che cade, e non sa como, per forza di demon ch’a terra il tira, o d’altra oppilazion che lega l’omo,114 quando si leva, che ’ntorno si mira tutto smarrito de la grande angoscia ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:117 tal era ’l peccator levato poscia. Oh potenza di Dio, quant’è severa, che cotai colpi per vendetta croscia!120 Lo duca il domandò poi chi ello era; per ch’ei rispuose: “Io piovvi di Toscana, poco tempo è, in questa gola fiera.123 Vita bestial mi piacque e non umana, sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci bestia, e Pistoia mi fu degna tana”.126 E ïo al duca: “Dilli che non mucci, e domanda che colpa qua giù ’l pinse; ch’io ’l vidi omo di sangue e di crucci”.129 E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse, ma drizzò verso me l’animo e ’l volto, e di trista vergogna si dipinse;132 poi disse: “Più mi duol che tu m’ hai colto ne la miseria dove tu mi vedi, che quando fui de l’altra vita tolto.135 Io non posso negar quel che tu chiedi; in giù son messo tanto perch’io fui ladro a la sagrestia d’i belli arredi,138 e falsamente già fu apposto altrui. Ma perché di tal vista tu non godi, se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,141 apri li orecchi al mio annunzio, e odi. Pistoia in pria d’i Neri si dimagra; poi Fiorenza rinova gente e modi.144 Tragge Marte vapor di Val di Magra ch’è di torbidi nuvoli involuto; e con tempesta impetüosa e agra147 sovra Campo Picen fia combattuto; ond’ei repente spezzerà la nebbia, sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.150 E detto l’ ho perché doler ti debbia!”. |
Canto 25
Nel XXV canto Dante e Virgilio sono sempre nell’ottavo cerchio. Qui incontrano diversi ladri e il centauro Caco, che è finito tra i ladri per aver rubato la mandria a Ercole. I ladri, collocati tra serpenti velenosi, subiscono orrende metamorfosi.
Al fine de le sue parole il ladro le mani alzò con amendue le fiche, gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!”.3 Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, perch’una li s’avvolse allora al collo, come dicesse ’Non vo’ che più diche’;6 e un’altra a le braccia, e rilegollo, ribadendo sé stessa sì dinanzi, che non potea con esse dare un crollo.9 Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi d’incenerarti sì che più non duri, poi che ‘n mal fare il seme tuo avanzi?12 Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri non vidi spirto in Dio tanto superbo, non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.15 El si fuggì che non parlò più verbo; e io vidi un centauro pien di rabbia venir chiamando: “Ov’è, ov’è l’acerbo?”.18 Maremma non cred’io che tante n’abbia, quante bisce elli avea su per la groppa infin ove comincia nostra labbia.21 Sovra le spalle, dietro da la coppa, con l’ali aperte li giacea un draco; e quello affuoca qualunque s’intoppa.24 Lo mio maestro disse: “Questi è Caco, che, sotto ’l sasso di monte Aventino, di sangue fece spesse volte laco.27 Non va co’ suoi fratei per un cammino, per lo furto che frodolente fece del grande armento ch’elli ebbe a vicino;30 onde cessar le sue opere biece sotto la mazza d’Ercule, che forse gliene diè cento, e non sentì le diece”.33 Mentre che sì parlava, ed el trascorse, e tre spiriti venner sotto noi, de’ quai né io né ’l duca mio s’accorse,36 se non quando gridar: “Chi siete voi?”; per che nostra novella si ristette, e intendemmo pur ad essi poi.39 Io non li conoscea; ma ei seguette, come suol seguitar per alcun caso, che l’un nomar un altro convenette,42 dicendo: “Cianfa dove fia rimaso?”; per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento, mi puosi ’l dito su dal mento al naso.45 Se tu se’ or, lettore, a creder lento ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia, ché io che ’l vidi, a pena il mi consento.48 Com’io tenea levate in lor le ciglia, e un serpente con sei piè si lancia dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia.51 Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia e con li anterïor le braccia prese; poi li addentò e l’una e l’altra guancia;54 li diretani a le cosce distese, e miseli la coda tra ’mbedue e dietro per le ren sù la ritese.57 Ellera abbarbicata mai non fue ad alber sì, come l’orribil fiera per l’altrui membra avviticchiò le sue.60 Poi s’appiccar, come di calda cera fossero stati, e mischiar lor colore, né l’un né l’altro già parea quel ch’era:63 come procede innanzi da l’ardore, per lo papiro suso, un color bruno che non è nero ancora e ’l bianco more.66 Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno gridava: “Omè, Agnel, come ti muti! Vedi che già non se’ né due né uno”.69 Già eran li due capi un divenuti, quando n’apparver due figure miste in una faccia, ov’eran due perduti.72 Fersi le braccia due di quattro liste; le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso divenner membra che non fuor mai viste.75 Ogne primaio aspetto ivi era casso: due e nessun l’imagine perversa parea; e tal sen gio con lento passo.78 Come ‘l ramarro sotto la gran fersa dei dì canicular, cangiando sepe, folgore par se la via attraversa,81 sì pareva, venendo verso l’epe de li altri due, un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe;84 e quella parte onde prima è preso nostro alimento, a l’un di lor trafisse; poi cadde giuso innanzi lui disteso.87 Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse; anzi, co’ piè fermati, sbadigliava pur come sonno o febbre l’assalisse.90 Elli ’l serpente e quei lui riguardava; l’un per la piaga e l’altro per la bocca fummavan forte, e ’l fummo si scontrava.93 Taccia Lucano omai là dov’e’ tocca del misero Sabello e di Nasidio, e attenda a udir quel ch’or si scocca.96 Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio, ché se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo ’nvidio;99 ché due nature mai a fronte a fronte non trasmutò sì ch’amendue le forme a cambiar lor matera fosser pronte.102 Insieme si rispuosero a tai norme, che ’l serpente la coda in forca fesse, e ’l feruto ristrinse insieme l’orme.105 Le gambe con le cosce seco stesse s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura non facea segno alcun che si paresse.108 Togliea la coda fessa la figura che si perdeva là, e la sua pelle si facea molle, e quella di là dura.111 Io vidi intrar le braccia per l’ascelle, e i due piè de la fiera, ch’eran corti, tanto allungar quanto accorciavan quelle.114 Poscia li piè di rietro, insieme attorti, diventaron lo membro che l’uom cela, e ’l misero del suo n’avea due porti.117 Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela di color novo, e genera ’l pel suso per l’una parte e da l’altra il dipela,120 l’un si levò e l’altro cadde giuso, non torcendo però le lucerne empie, sotto le quai ciascun cambiava muso.123 Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie, e di troppa matera ch’in là venne uscir li orecchi de le gote scempie;126 ciò che non corse in dietro e si ritenne di quel soverchio, fé naso a la faccia e le labbra ingrossò quanto convenne.129 Quel che giacëa, il muso innanzi caccia, e li orecchi ritira per la testa come face le corna la lumaccia;132 e la lingua, ch’avëa unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta.135 L’anima ch’era fiera divenuta, suffolando si fugge per la valle, e l’altro dietro a lui parlando sputa.138 Poscia li volse le novelle spalle, e disse a l’altro: “I’ vo’ che Buoso corra, com’ ho fatt’io, carpon per questo calle”.141 Così vid’io la settima zavorra mutare e trasmutare; e qui mi scusi la novità se fior la penna abborra.144 E avvegna che li occhi miei confusi fossero alquanto e l’animo smagato, non poter quei fuggirsi tanto chiusi,147 ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato; ed era quel che sol, di tre compagni che venner prima, non era mutato;150 l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni. |
Canto 26
Nel canto XXVI, Dante incontra i consiglieri fraudolenti.
Qui incontra le due anime di Diogene e Ulisse.
L’eroe dell’Odissea racconta cosa è accaduto dopo il suo rientro a Itaca.
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande che per mare e per terra batti l’ali, e per lo ‘nferno tuo nome si spande!3 Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali.6 Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai, di qua da picciol tempo, di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.9 E se già fosse, non saria per tempo. Così foss’ei, da che pur esser dee! ché più mi graverà, com’ più m’attempo.12 Noi ci partimmo, e su per le scalee che n’avea fatto iborni a scender pria, rimontò ’l duca mio e trasse mee;15 e proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio lo piè sanza la man non si spedia.18 Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,21 perché non corra che virtù nol guidi; sì che, se stella bona o miglior cosa m’ ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.24 Quante ’l villan ch’al poggio si riposa, nel tempo che colui che ’l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa,27 come la mosca cede a la zanzara, vede lucciole giù per la vallea, forse colà dov’e’ vendemmia e ara:30 di tante fiamme tutta risplendea l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.33 E qual colui che si vengiò con li orsi vide ’l carro d’Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi,36 che nol potea sì con li occhi seguire, ch’el vedesse altro che la fiamma sola, sì come nuvoletta, in sù salire:39 tal si move ciascuna per la gola del fosso, ché nessuna mostra ’l furto, e ogne fiamma un peccatore invola.42 Io stava sovra ’l ponte a veder surto, sì che s’io non avessi un ronchion preso, caduto sarei giù sanz’esser urto.45 E ’l duca, che mi vide tanto atteso, disse: “Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch’elli è inceso”.48 “Maestro mio”, rispuos’io, “per udirti son io più certo; ma già m’era avviso che così fosse, e già voleva dirti:51 chi è ’n quel foco che vien sì diviso di sopra, che par surger de la pira dov’Eteòcle col fratel fu miso?”.54 Rispuose a me: “Là dentro si martira Ulisse e Dïomede, e così insieme a la vendetta vanno come a l’ira;57 e dentro da la lor fiamma si geme l’agguato del caval che fé la porta onde uscì de’ Romani il gentil seme.60 Piangevisi entro l’arte per che, morta, Deïdamìa ancor si duol d’Achille, e del Palladio pena vi si porta”.63 “S’ei posson dentro da quelle faville parlar”, diss’io, “maestro, assai ten priego e ripriego, che ’l priego vaglia mille,66 che non mi facci de l’attender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna; vedi che del disio ver’ lei mi piego!”.69 Ed elli a me: “La tua preghiera è degna di molta loda, e io però l’accetto; ma fa che la tua lingua si sostegna.72 Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi, perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto”.75 Poi che la fiamma fu venuta quivi dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi:78 “O voi che siete due dentro ad un foco, s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, s’io meritai di voi assai o poco81 quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l’un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi”.84 Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando, pur come quella cui vento affatica;87 indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori e disse: “Quando90 mi diparti’ da Circe, che sottrasse me più d’un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enëa la nomasse,93 né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta,96 vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore;99 ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto.102 L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, e l’altre che quel mare intorno bagna.105 Io e’ compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi108 acciò che l’uom più oltre non si metta; da la man destra mi lasciai Sibilia, da l’altra già m’avea lasciata Setta.111 “O frati,” dissi, “che per cento milia perigli siete giunti a l’occidente, a questa tanto picciola vigilia114 d’i nostri sensi ch’è del rimanente non vogliate negar l’esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente.117 Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.120 Li miei compagni fec’io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti;123 e volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino.126 Tutte le stelle già de l’altro polo vedea la notte, e ’l nostro tanto basso, che non surgëa fuor del marin suolo.129 Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna, poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,132 quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avëa alcuna.135 Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché de la nova terra un turbo nacque e percosse del legno il primo canto.138 Tre volte il fé girar con tutte l’acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’altrui piacque,141 infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”. |
Canto 27
Nel canto XXVII, Dante e Virgilio incontrano dei cattivi consiglieri, degli imbroglioni come il conte Guido da Montefeltro.
Già era dritta in sù la fiamma e queta per non dir più, e già da noi sen gia con la licenza del dolce poeta,3 quand’un’altra, che dietro a lei venìa, ne fece volger li occhi a la sua cima per un confuso suon che fuor n’uscia.6 Come ’l bue cicilian che mugghiò prima col pianto di colui, e ciò fu dritto, che l’avea temperato con sua lima,9 mugghiava con la voce de l’afflitto, sì che, con tutto che fosse di rame, pur el pareva dal dolor trafitto;12 così, per non aver via né forame dal principio nel foco, in suo linguaggio si convertïan le parole grame.15 Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio su per la punta, dandole quel guizzo che dato avea la lingua in lor passaggio,18 udimmo dire: “O tu a cu’ io drizzo la voce e che parlavi mo lombardo, dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”,21 perch’io sia giunto forse alquanto tardo, non t’incresca restare a parlar meco; vedi che non incresce a me, e ardo!24 Se tu pur mo in questo mondo cieco caduto se’ di quella dolce terra latina ond’io mia colpa tutta reco,27 dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; ch’io fui d’i monti là intra Orbino e ’l giogo di che Tever si diserra”.30 Io era in giuso ancora attento e chino, quando il mio duca mi tentò di costa, dicendo: “Parla tu; questi è latino”.33 E io, ch’avea già pronta la risposta, sanza indugio a parlare incominciai: “O anima che se’ là giù nascosta,36 Romagna tua non è, e non fu mai, sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni; ma ’n palese nessuna or vi lasciai.39 Ravenna sta come stata è molt’anni: l’aguglia da Polenta la si cova, sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.42 La terra che fé già la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio, sotto le branche verdi si ritrova.45 E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio, che fecer di Montagna il mal governo, là dove soglion fan d’i denti succhio.48 Le città di Lamone e di Santerno conduce il lïoncel dal nido bianco, che muta parte da la state al verno.51 E quella cu’ il Savio bagna il fianco, così com’ella sie’ tra ‘l piano e ‘l monte, tra tirannia si vive e stato franco.54 Ora chi se’, ti priego che ne conte; non esser duro più ch’altri sia stato, se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte”.57 Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato al modo suo, l’aguta punta mosse di qua, di là, e poi diè cotal fiato:60 “S’i’ credesse che mia risposta fosse a persona che mai tornasse al mondo, questa fiamma staria sanza più scosse;63 ma però che già mai di questo fondo non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero, sanza tema d’infamia ti rispondo.66 Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero, credendomi, sì cinto, fare ammenda; e certo il creder mio venìa intero,69 se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, che mi rimise ne le prime colpe; e come e quare, voglio che m’intenda.72 Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe che la madre mi diè, l’opere mie non furon leonine, ma di volpe.75 Li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte, e sì menai lor arte, ch’al fine de la terra il suono uscie.78 Quando mi vidi giunto in quella parte di mia etade ove ciascun dovrebbe calar le vele e raccoglier le sarte,81 ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe, e pentuto e confesso mi rendei; ahi miser lasso! e giovato sarebbe.84 Lo principe d’i novi Farisei, avendo guerra presso a Laterano, e non con Saracin né con Giudei,87 ché ciascun suo nimico era cristiano, e nessun era stato a vincer Acri né mercatante in terra di Soldano,90 né sommo officio né ordini sacri guardò in sé, né in me quel capestro che solea fare i suoi cinti più macri.93 Ma come Costantin chiese Silvestro d’entro Siratti a guerir de la lebbre, così mi chiese questi per maestro96 a guerir de la sua superba febbre; domandommi consiglio, e io tacetti perché le sue parole parver ebbre.99 E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti; finor t’assolvo, e tu m’insegna fare sì come Penestrino in terra getti.102 Lo ciel poss’io serrare e diserrare, come tu sai; però son due le chiavi che ’l mio antecessor non ebbe care”.105 Allor mi pinser li argomenti gravi là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio, e dissi: “Padre, da che tu mi lavi108 di quel peccato ov’io mo cader deggio, lunga promessa con l’attender corto ti farà trïunfar ne l’alto seggio”.111 Francesco venne poi, com’io fu’ morto, per me; ma un d’i neri cherubini li disse: “Non portar; non mi far torto.114 Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini perché diede ’l consiglio frodolente, dal quale in qua stato li sono a’ crini;117 ch’assolver non si può chi non si pente, né pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente”.120 Oh me dolente! come mi riscossi quando mi prese dicendomi: “Forse tu non pensavi ch’io löico fossi!”.123 A Minòs mi portò; e quelli attorse otto volte la coda al dosso duro; e poi che per gran rabbia la si morse,126 disse: “Questi è d’i rei del foco furo”; per ch’io là dove vedi son perduto, e sì vestito, andando, mi rancuro”.129 Quand’elli ebbe ’l suo dir così compiuto, la fiamma dolorando si partio, torcendo e dibattendo ’l corno aguto.132 Noi passamm’oltre, e io e ’l duca mio, su per lo scoglio infino in su l’altr’arco che cuopre ’l fosso in che si paga il fio135 a quei che scommettendo acquistan carco. |
Canto 28
https://www.youtube.com/watch?v=f3CB8jheR88
Questo è uno dei canti più sanguinosi di tutto l’inferno. Dante e Virgilio sono nella nona bolgia e incontrano la nutrita schiera di coloro che provocarono scismi e discordie. Tra questi troviamo anche Maometto perché al tempo di Dante si credeva che Maometto fosse stato un vescovo che aveva provocato uno scisma per non esser stato eletto al soglio papale.
Molti sono i dannati che vengono lacerati e mutilati dai demoni.
Chi poria mai pur con parole sciolte dicer del sangue e de le piaghe a pieno ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?3 Ogne lingua per certo verria meno per lo nostro sermone e per la mente c’ hanno a tanto comprender poco seno.6 S’el s’aunasse ancor tutta la gente che già, in su la fortunata terra di Puglia, fu del suo sangue dolente9 per li Troiani e per la lunga guerra che de l’anella fé sì alte spoglie, come Livïo scrive, che non erra,12 con quella che sentio di colpi doglie per contastare a Ruberto Guiscardo; e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie15 a Ceperan, là dove fu bugiardo ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo, dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo;18 e qual forato suo membro e qual mozzo mostrasse, d’aequar sarebbe nulla il modo de la nona bolgia sozzo.21 Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com’io vidi un, così non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla.24 Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e ’l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia.27 Mentre che tutto in lui veder m’attacco, guardommi e con le man s’aperse il petto, dicendo: “Or vedi com’io mi dilacco!30 vedi come storpiato è Mäometto! Dinanzi a me sen va piangendo Alì, fesso nel volto dal mento al ciuffetto.33 E tutti li altri che tu vedi qui, seminator di scandalo e di scisma fuor vivi, e però son fessi così.36 Un diavolo è qua dietro che n’accisma sì crudelmente, al taglio de la spada rimettendo ciascun di questa risma,39 quand’avem volta la dolente strada; però che le ferite son richiuse prima ch’altri dinanzi li rivada.42 Ma tu chi se’ che ’n su lo scoglio muse, forse per indugiar d’ire a la pena ch’è giudicata in su le tue accuse?”.45 “Né morte ’l giunse ancor, né colpa ’l mena”, rispuose ’l mio maestro, “a tormentarlo; ma per dar lui esperïenza piena,48 a me, che morto son, convien menarlo per lo ’nferno qua giù di giro in giro; e quest’è ver così com’io ti parlo”.51 Più fuor di cento che, quando l’udiro, s’arrestaron nel fosso a riguardarmi per maraviglia, oblïando il martiro.54 “Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi, tu che forse vedra’ il sole in breve, s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,57 sì di vivanda, che stretta di neve non rechi la vittoria al Noarese, ch’altrimenti acquistar non saria leve”.60 Poi che l’un piè per girsene sospese, Mäometto mi disse esta parola; indi a partirsi in terra lo distese.63 Un altro, che forata avea la gola e tronco ’l naso infin sotto le ciglia, e non avea mai ch’una orecchia sola,66 ristato a riguardar per maraviglia con li altri, innanzi a li altri aprì la canna, ch’era di fuor d’ogne parte vermiglia,69 e disse: “O tu cui colpa non condanna e cu’ io vidi in su terra latina, se troppa simiglianza non m’inganna,72 rimembriti di Pier da Medicina, se mai torni a veder lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina.75 E fa sapere a’ due miglior da Fano, a messer Guido e anco ad Angiolello, che, se l’antiveder qui non è vano,78 gittati saran fuor di lor vasello e mazzerati presso a la Cattolica per tradimento d’un tiranno fello.81 Tra l’isola di Cipri e di Maiolica non vide mai sì gran fallo Nettuno, non da pirate, non da gente argolica.84 Quel traditor che vede pur con l’uno, e tien la terra che tale qui meco vorrebbe di vedere esser digiuno,87 farà venirli a parlamento seco; poi farà sì, ch’al vento di Focara non sarà lor mestier voto né preco”.90 E io a lui: “Dimostrami e dichiara, se vuo’ ch’i’ porti sù di te novella, chi è colui da la veduta amara”.93 Allor puose la mano a la mascella d’un suo compagno e la bocca li aperse, gridando: “Questi è desso, e non favella.96 Questi, scacciato, il dubitar sommerse in Cesare, affermando che ’l fornito sempre con danno l’attender sofferse”.99 Oh quanto mi pareva sbigottito con la lingua tagliata ne la strozza Curïo, ch’a dir fu così ardito!102 E un ch’avea l’una e l’altra man mozza, levando i moncherin per l’aura fosca, sì che ’l sangue facea la faccia sozza,105 gridò: “Ricordera’ ti anche del Mosca, che disse, lasso!, ’Capo ha cosa fatta’, che fu mal seme per la gente tosca”.108 E io li aggiunsi: “E morte di tua schiatta”; per ch’elli, accumulando duol con duolo, sen gio come persona trista e matta.111 Ma io rimasi a riguardar lo stuolo, e vidi cosa ch’io avrei paura, sanza più prova, di contarla solo;114 se non che coscïenza m’assicura, la buona compagnia che l’uom francheggia sotto l’asbergo del sentirsi pura.117 Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia, un busto sanza capo andar sì come andavan li altri de la trista greggia;120 e ’l capo tronco tenea per le chiome, pesol con mano a guisa di lanterna: e quel mirava noi e dicea: “Oh me!”.123 Di sé facea a sé stesso lucerna, ed eran due in uno e uno in due; com’esser può, quei sa che sì governa.126 Quando diritto al piè del ponte fue, levò ’l braccio alto con tutta la testa per appressarne le parole sue,129 che fuoro: “Or vedi la pena molesta, tu che, spirando, vai veggendo i morti: vedi s’alcuna è grande come questa.132 E perché tu di me novella porti, sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli che diedi al re giovane i ma’ conforti.135 Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli; Achitofèl non fé più d’Absalone e di Davìd coi malvagi punzelli.138 Perch’io parti’ così giunte persone, partito porto il mio cerebro, lasso!, dal suo principio ch’è in questo troncone.141 Così s’osserva in me lo contrapasso”. |
Canto 29
Canto XXIX, ove tratta de la decima bolgia, dove si puniscono i falsi fabricatori di qualunque opera, e isgrida e riprende l’autore i Sanesi. La molta gente e le diverse piaghe avean le luci mie sì inebrïate, che de lo stare a piangere eran vaghe.3 Ma Virgilio mi disse: “Che pur guate? perché la vista tua pur si soffolge là giù tra l’ombre triste smozzicate?6 Tu non hai fatto sì a l’altre bolge; pensa, se tu annoverar le credi, che miglia ventidue la valle volge.9 E già la luna è sotto i nostri piedi; lo tempo è poco omai che n’è concesso, e altro è da veder che tu non vedi”.12 “Se tu avessi”, rispuos’io appresso, “atteso a la cagion per ch’io guardava, forse m’avresti ancor lo star dimesso”.15 Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca, già faccendo la risposta, e soggiugnendo: “Dentro a quella cava18 dov’io tenea or li occhi sì a posta, credo ch’un spirto del mio sangue pianga la colpa che là giù cotanto costa”.21 Allor disse ’l maestro: “Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ello. Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;24 ch’io vidi lui a piè del ponticello mostrarti e minacciar forte col dito, e udi’ ’l nominar Geri del Bello.27 Tu eri allor sì del tutto impedito sovra colui che già tenne Altaforte, che non guardasti in là, sì fu partito”.30 “O duca mio, la vïolenta morte che non li è vendicata ancor”, diss’io, “per alcun che de l’onta sia consorte,33 fece lui disdegnoso; ond’el sen gio sanza parlarmi, sì com’ïo estimo: e in ciò m’ ha el fatto a sé più pio”.36 Così parlammo infino al loco primo che de lo scoglio l’altra valle mostra, se più lume vi fosse, tutto ad imo.39 Quando noi fummo sor l’ultima chiostra di Malebolge, sì che i suoi conversi potean parere a la veduta nostra,42 lamenti saettaron me diversi, che di pietà ferrati avean li strali; ond’io li orecchi con le man copersi.45 Qual dolor fora, se de li spedali di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre e di Maremma e di Sardigna i mali48 fossero in una fossa tutti ’nsembre, tal era quivi, e tal puzzo n’usciva qual suol venir de le marcite membre.51 Noi discendemmo in su l’ultima riva del lungo scoglio, pur da man sinistra; e allor fu la mia vista più viva54 giù ver’ lo fondo, là ’ve la ministra de l’alto Sire infallibil giustizia punisce i falsador che qui registra.57 Non credo ch’a veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo, quando fu l’aere sì pien di malizia,60 che li animali, infino al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti antiche, secondo che i poeti hanno per fermo,63 si ristorar di seme di formiche; ch’era a veder per quella oscura valle languir li spirti per diverse biche.66 Qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle l’un de l’altro giacea, e qual carpone si trasmutava per lo tristo calle.69 Passo passo andavam sanza sermone, guardando e ascoltando li ammalati, che non potean levar le lor persone.72 Io vidi due sedere a sé poggiati, com’a scaldar si poggia tegghia a tegghia, dal capo al piè di schianze macolati;75 e non vidi già mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso, né a colui che mal volontier vegghia,78 come ciascun menava spesso il morso de l’unghie sopra sé per la gran rabbia del pizzicor, che non ha più soccorso;81 e sì traevan giù l’unghie la scabbia, come coltel di scardova le scaglie o d’altro pesce che più larghe l’abbia.84 “O tu che con le dita ti dismaglie”, cominciò ’l duca mio a l’un di loro, “e che fai d’esse talvolta tanaglie,87 dinne s’alcun Latino è tra costoro che son quinc’entro, se l’unghia ti basti etternalmente a cotesto lavoro”.90 “Latin siam noi, che tu vedi sì guasti qui ambedue”, rispuose l’un piangendo; “ma tu chi se’ che di noi dimandasti?”.93 E ’l duca disse: “I’ son un che discendo con questo vivo giù di balzo in balzo, e di mostrar lo ’nferno a lui intendo”.96 Allor si ruppe lo comun rincalzo; e tremando ciascuno a me si volse con altri che l’udiron di rimbalzo.99 Lo buon maestro a me tutto s’accolse, dicendo: “Dì a lor ciò che tu vuoli”; e io incominciai, poscia ch’ei volse:102 “Se la vostra memoria non s’imboli nel primo mondo da l’umane menti, ma s’ella viva sotto molti soli,105 ditemi chi voi siete e di che genti; la vostra sconcia e fastidiosa pena di palesarvi a me non vi spaventi”.108 “Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena”, rispuose l’un, “mi fé mettere al foco; ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena.111 Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco: “I’ mi saprei levar per l’aere a volo”; e quei, ch’avea vaghezza e senno poco,114 volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo perch’io nol feci Dedalo, mi fece ardere a tal che l’avea per figliuolo.117 Ma ne l’ultima bolgia de le diece me per l’alchìmia che nel mondo usai dannò Minòs, a cui fallar non lece”.120 E io dissi al poeta: “Or fu già mai gente sì vana come la sanese? Certo non la francesca sì d’assai!”.123 Onde l’altro lebbroso, che m’intese, rispuose al detto mio: “Tra’ mene Stricca che seppe far le temperate spese,126 e Niccolò che la costuma ricca del garofano prima discoverse ne l’orto dove tal seme s’appicca;129 e tra’ ne la brigata in che disperse Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda, e l’Abbagliato suo senno proferse.132 Ma perché sappi chi sì ti seconda contra i Sanesi, aguzza ver’ me l’occhio, sì che la faccia mia ben ti risponda:135 sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio, che falsai li metalli con l’alchìmia; e te dee ricordar, se ben t’adocchio,138 com’io fui di natura buona scimia”. |
Canto 30
anto XXX, ove tratta di quella medesima materia e gente. Nel tempo che Iunone era crucciata per Semelè contra ’l sangue tebano, come mostrò una e altra fïata,3 Atamante divenne tanto insano, che veggendo la moglie con due figli andar carcata da ciascuna mano,6 gridò: “Tendiam le reti, sì ch’io pigli la leonessa e ’ leoncini al varco”; e poi distese i dispietati artigli,9 prendendo l’un ch’avea nome Learco, e rotollo e percosselo ad un sasso; e quella s’annegò con l’altro carco.12 E quando la fortuna volse in basso l’altezza de’ Troian che tutto ardiva, sì che ’nsieme col regno il re fu casso,15 Ecuba trista, misera e cattiva, poscia che vide Polissena morta, e del suo Polidoro in su la riva18 del mar si fu la dolorosa accorta, forsennata latrò sì come cane; tanto il dolor le fé la mente torta.21 Ma né di Tebe furie né troiane si vider mäi in alcun tanto crude, non punger bestie, nonché membra umane,24 quant’io vidi in due ombre smorte e nude, che mordendo correvan di quel modo che ’l porco quando del porcil si schiude.27 L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo del collo l’assannò, sì che, tirando, grattar li fece il ventre al fondo sodo.30 E l’Aretin che rimase, tremando mi disse: “Quel folletto è Gianni Schicchi, e va rabbioso altrui così conciando”.33 “Oh”, diss’io lui, “se l’altro non ti ficchi li denti a dosso, non ti sia fatica a dir chi è, pria che di qui si spicchi”.36 Ed elli a me: “Quell’è l’anima antica di Mirra scellerata, che divenne al padre, fuor del dritto amore, amica.39 Questa a peccar con esso così venne, falsificando sé in altrui forma, come l’altro che là sen va, sostenne,42 per guadagnar la donna de la torma, falsificare in sé Buoso Donati, testando e dando al testamento norma”.45 E poi che i due rabbiosi fuor passati sovra cu’ io avea l’occhio tenuto, rivolsilo a guardar li altri mal nati.48 Io vidi un, fatto a guisa di lëuto, pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.51 La grave idropesì, che sì dispaia le membra con l’omor che mal converte, che ’l viso non risponde a la ventraia,54 faceva lui tener le labbra aperte come l’etico fa, che per la sete l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte.57 “O voi che sanz’alcuna pena siete, e non so io perché, nel mondo gramo”, diss’elli a noi, “guardate e attendete60 a la miseria del maestro Adamo; io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli, e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.63 Li ruscelletti che d’i verdi colli del Casentin discendon giuso in Arno, faccendo i lor canali freddi e molli,66 sempre mi stanno innanzi, e non indarno, ché l’imagine lor vie più m’asciuga che ’l male ond’io nel volto mi discarno.69 La rigida giustizia che mi fruga tragge cagion del loco ov’io peccai a metter più li miei sospiri in fuga.72 Ivi è Romena, là dov’io falsai la lega suggellata del Batista; per ch’io il corpo sù arso lasciai.75 Ma s’io vedessi qui l’anima trista di Guido o d’Alessandro o di lor frate, per Fonte Branda non darei la vista.78 Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate ombre che vanno intorno dicon vero; ma che mi val, c’ ho le membra legate?81 S’io fossi pur di tanto ancor leggero ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia, io sarei messo già per lo sentiero,84 cercando lui tra questa gente sconcia, con tutto ch’ella volge undici miglia, e men d’un mezzo di traverso non ci ha.87 Io son per lor tra sì fatta famiglia; e’ m’indussero a batter li fiorini ch’avevan tre carati di mondiglia”.90 E io a lui: “Chi son li due tapini che fumman come man bagnate ’l verno, giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.93 “Qui li trovai – e poi volta non dierno -“, rispuose, “quando piovvi in questo greppo, e non credo che dieno in sempiterno.96 L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo; l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia: per febbre aguta gittan tanto leppo”.99 E l’un di lor, che si recò a noia forse d’esser nomato sì oscuro, col pugno li percosse l’epa croia.102 Quella sonò come fosse un tamburo; e mastro Adamo li percosse il volto col braccio suo, che non parve men duro,105 dicendo a lui: “Ancor che mi sia tolto lo muover per le membra che son gravi, ho io il braccio a tal mestiere sciolto”.108 Ond’ei rispuose: “Quando tu andavi al fuoco, non l’avei tu così presto; ma sì e più l’avei quando coniavi”.111 E l’idropico: “Tu di’ ver di questo: ma tu non fosti sì ver testimonio là ’ve del ver fosti a Troia richesto”.114 “S’io dissi falso, e tu falsasti il conio”, disse Sinon; “e son qui per un fallo, e tu per più ch’alcun altro demonio!”.117 “Ricorditi, spergiuro, del cavallo”, rispuose quel ch’avëa infiata l’epa; “e sieti reo che tutto il mondo sallo!”.120 “E te sia rea la sete onde ti crepa”, disse ’l Greco, “la lingua, e l’acqua marcia che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!”.123 Allora il monetier: “Così si squarcia la bocca tua per tuo mal come suole; ché, s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia,126 tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole, e per leccar lo specchio di Narcisso, non vorresti a ’nvitar molte parole”.129 Ad ascoltarli er’io del tutto fisso, quando ’l maestro mi disse: “Or pur mira, che per poco che teco non mi risso!”.132 Quand’io ’l senti’ a me parlar con ira, volsimi verso lui con tal vergogna, ch’ancor per la memoria mi si gira.135 Qual è colui che suo dannaggio sogna, che sognando desidera sognare, sì che quel ch’è, come non fosse, agogna,138 tal mi fec’io, non possendo parlare, che disïava scusarmi, e scusava me tuttavia, e nol mi credea fare.141 “Maggior difetto men vergogna lava”, disse ’l maestro, “che ’l tuo non è stato; però d’ogne trestizia ti disgrava.144 E fa ragion ch’io ti sia sempre allato, se più avvien che fortuna t’accoglia dove sien genti in simigliante piato:147 ché voler ciò udire è bassa voglia”. |
Canto 31
Canto XXXI, ove tratta de’ giganti che guardano il pozzo de l’inferno, ed è il nono cerchio. Una medesma lingua pria mi morse, sì che mi tinse l’una e l’altra guancia, e poi la medicina mi riporse;3 così od’io che solea far la lancia d’Achille e del suo padre esser cagione prima di trista e poi di buona mancia.6 Noi demmo il dosso al misero vallone su per la ripa che ’l cinge dintorno, attraversando sanza alcun sermone.9 Quiv’era men che notte e men che giorno, sì che ’l viso m’andava innanzi poco; ma io senti’ sonare un alto corno,12 tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra sé la sua via seguitando, dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.15 Dopo la dolorosa rotta, quando Carlo Magno perdé la santa gesta, non sonò sì terribilmente Orlando.18 Poco portäi in là volta la testa, che me parve veder molte alte torri; ond’io: “Maestro, dì, che terra è questa?”.21 Ed elli a me: “Però che tu trascorri per le tenebre troppo da la lungi, avvien che poi nel maginare abborri.24 Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, quanto ’l senso s’inganna di lontano; però alquanto più te stesso pungi”.27 Poi caramente mi prese per mano e disse: “Pria che noi siam più avanti, acciò che ’l fatto men ti paia strano,30 sappi che non son torri, ma giganti, e son nel pozzo intorno da la ripa da l’umbilico in giuso tutti quanti”.33 Come quando la nebbia si dissipa, lo sguardo a poco a poco raffigura ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa,36 così forando l’aura grossa e scura, più e più appressando ver’ la sponda, fuggiemi errore e cresciemi paura;39 però che, come su la cerchia tonda Montereggion di torri si corona, così la proda che ’l pozzo circonda42 torreggiavan di mezza la persona li orribili giganti, cui minaccia Giove del cielo ancora quando tuona.45 E io scorgeva già d’alcun la faccia, le spalle e ’l petto e del ventre gran parte, e per le coste giù ambo le braccia.48 Natura certo, quando lasciò l’arte di sì fatti animali, assai fé bene per tòrre tali essecutori a Marte.51 E s’ella d’elefanti e di balene non si pente, chi guarda sottilmente, più giusta e più discreta la ne tene;54 ché dove l’argomento de la mente s’aggiugne al mal volere e a la possa, nessun riparo vi può far la gente.57 La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di San Pietro a Roma, e a sua proporzione eran l’altre ossa;60 sì che la ripa, ch’era perizoma dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto di sovra, che di giugnere a la chioma63 tre Frison s’averien dato mal vanto; però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi dal loco in giù dov’omo affibbia ’l manto.66 “Raphèl maì amècche zabì almi”, cominciò a gridar la fiera bocca, cui non si convenia più dolci salmi.69 E ’l duca mio ver’ lui: “Anima sciocca, tienti col corno, e con quel ti disfoga quand’ira o altra passïon ti tocca!72 Cércati al collo, e troverai la soga che ’l tien legato, o anima confusa, e vedi lui che ’l gran petto ti doga”.75 Poi disse a me: “Elli stessi s’accusa; questi è Nembrotto per lo cui mal coto pur un linguaggio nel mondo non s’usa.78 Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; ché così è a lui ciascun linguaggio come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto”.81 Facemmo adunque più lungo vïaggio, vòlti a sinistra; e al trar d’un balestro trovammo l’altro assai più fero e maggio.84 A cigner lui qual che fosse ’l maestro, non so io dir, ma el tenea soccinto dinanzi l’altro e dietro il braccio destro87 d’una catena che ’l tenea avvinto dal collo in giù, sì che ’n su lo scoperto si ravvolgëa infino al giro quinto.90 “Questo superbo volle esser esperto di sua potenza contra ’l sommo Giove”, disse ’l mio duca, “ond’elli ha cotal merto.93 Fïalte ha nome, e fece le gran prove quando i giganti fer paura a’ dèi; le braccia ch’el menò, già mai non move”.96 E io a lui: “S’esser puote, io vorrei che de lo smisurato Brïareo esperïenza avesser li occhi mei”.99 Ond’ei rispuose: “Tu vedrai Anteo presso di qui che parla ed è disciolto, che ne porrà nel fondo d’ogne reo.102 Quel che tu vuo’ veder, più là è molto ed è legato e fatto come questo, salvo che più feroce par nel volto”.105 Non fu tremoto già tanto rubesto, che scotesse una torre così forte, come Fïalte a scuotersi fu presto.108 Allor temett’io più che mai la morte, e non v’era mestier più che la dotta, s’io non avessi viste le ritorte.111 Noi procedemmo più avante allotta, e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, sanza la testa, uscia fuor de la grotta.114 “O tu che ne la fortunata valle che fece Scipïon di gloria reda, quand’Anibàl co’ suoi diede le spalle,117 recasti già mille leon per preda, e che, se fossi stato a l’alta guerra de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda120 ch’avrebber vinto i figli de la terra: mettine giù, e non ten vegna schifo, dove Cocito la freddura serra.123 Non ci fare ire a Tizio né a Tifo: questi può dar di quel che qui si brama; però ti china e non torcer lo grifo.126 Ancor ti può nel mondo render fama, ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama”.129 Così disse ’l maestro; e quelli in fretta le man distese, e prese ’l duca mio, ond’Ercule sentì già grande stretta.132 Virgilio, quando prender si sentio, disse a me: “Fatti qua, sì ch’io ti prenda”; poi fece sì ch’un fascio era elli e io.135 Qual pare a riguardar la Carisenda sotto ‘l chinato, quando un nuvol vada sovr’essa sì, ched ella incontro penda:138 tal parve Antëo a me che stava a bada di vederlo chinare, e fu tal ora ch’i’ avrei voluto ir per altra strada.141 Ma lievemente al fondo che divora Lucifero con Giuda, ci sposò; né, sì chinato, lì fece dimora,144 e come albero in nave si levò. |
Canto 32
Canto XXXII, nel quale tratta de’ traditori di loro schiatta e de’ traditori de la loro patria, che sono nel pozzo de l’inferno. S’ïo avessi le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,3 io premerei di mio concetto il suco più pienamente; ma perch’io non l’abbo, non sanza tema a dicer mi conduco;6 ché non è impresa da pigliare a gabbo discriver fondo a tutto l’universo, né da lingua che chiami mamma o babbo.9 Ma quelle donne aiutino il mio verso ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe, sì che dal fatto il dir non sia diverso.12 Oh sovra tutte mal creata plebe che stai nel loco onde parlare è duro, mei foste state qui pecore o zebe!15 Come noi fummo giù nel pozzo scuro sotto i piè del gigante assai più bassi, e io mirava ancora a l’alto muro,18 dicere udi’ mi: “Guarda come passi: va sì, che tu non calchi con le piante le teste de’ fratei miseri lassi”.21 Per ch’io mi volsi, e vidimi davante e sotto i piedi un lago che per gelo avea di vetro e non d’acqua sembiante.24 Non fece al corso suo sì grosso velo di verno la Danoia in Osterlicchi, né Tanaï là sotto ’l freddo cielo,27 com’era quivi; che se Tambernicchi vi fosse sù caduto, o Pietrapana, non avria pur da l’orlo fatto cricchi.30 E come a gracidar si sta la rana col muso fuor de l’acqua, quando sogna di spigolar sovente la villana,33 livide, insin là dove appar vergogna eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia, mettendo i denti in nota di cicogna.36 Ognuna in giù tenea volta la faccia; da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo tra lor testimonianza si procaccia.39 Quand’io m’ebbi dintorno alquanto visto, volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti, che ’l pel del capo avieno insieme misto.42 “Ditemi, voi che sì strignete i petti”, diss’io, “chi siete?”. E quei piegaro i colli; e poi ch’ebber li visi a me eretti,45 li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli, gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse le lagrime tra essi e riserrolli.48 Con legno legno spranga mai non cinse forte così; ond’ei come due becchi cozzaro insieme, tanta ira li vinse.51 E un ch’avea perduti ambo li orecchi per la freddura, pur col viso in giùe, disse: “Perché cotanto in noi ti specchi?54 Se vuoi saper chi son cotesti due, la valle onde Bisenzo si dichina del padre loro Alberto e di lor fue.57 D’un corpo usciro; e tutta la Caina potrai cercare, e non troverai ombra degna più d’esser fitta in gelatina:60 non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra con esso un colpo per la man d’Artù; non Focaccia; non questi che m’ingombra63 col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più, e fu nomato Sassol Mascheroni; se tosco se’, ben sai omai chi fu.66 E perché non mi metti in più sermoni, sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi; e aspetto Carlin che mi scagioni”.69 Poscia vid’io mille visi cagnazzi fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, e verrà sempre, de’ gelati guazzi.72 E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo al quale ogne gravezza si rauna, e io tremava ne l’etterno rezzo;75 se voler fu o destino o fortuna, non so; ma, passeggiando tra le teste, forte percossi ’l piè nel viso ad una.78 Piangendo mi sgridò: “Perché mi peste? se tu non vieni a crescer la vendetta di Montaperti, perché mi moleste?”.81 E io: “Maestro mio, or qui m’aspetta, sì ch’io esca d’un dubbio per costui; poi mi farai, quantunque vorrai, fretta”.84 Lo duca stette, e io dissi a colui che bestemmiava duramente ancora: “Qual se’ tu che così rampogni altrui?”.87 “Or tu chi se’ che vai per l’Antenora, percotendo”, rispuose, “altrui le gote, sì che, se fossi vivo, troppo fora?”.90 “Vivo son io, e caro esser ti puote”, fu mia risposta, “se dimandi fama, ch’io metta il nome tuo tra l’altre note”.93 Ed elli a me: “Del contrario ho io brama. Lèvati quinci e non mi dar più lagna, ché mal sai lusingar per questa lama!”.96 Allor lo presi per la cuticagna e dissi: “El converrà che tu ti nomi, o che capel qui sù non ti rimagna”.99 Ond’elli a me: “Perché tu mi dischiomi, né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti se mille fiate in sul capo mi tomi”.102 Io avea già i capelli in mano avvolti, e tratti glien’avea più d’una ciocca, latrando lui con li occhi in giù raccolti,105 quando un altro gridò: “Che hai tu, Bocca? non ti basta sonar con le mascelle, se tu non latri? qual diavol ti tocca?”.108 “Omai”, diss’io, “non vo’ che più favelle, malvagio traditor; ch’a la tua onta io porterò di te vere novelle”.111 “Va via”, rispuose, “e ciò che tu vuoi conta; ma non tacer, se tu di qua entro eschi, di quel ch’ebbe or così la lingua pronta.114 El piange qui l’argento de’ Franceschi: “Io vidi”, potrai dir, “quel da Duera là dove i peccatori stanno freschi”.117 Se fossi domandato “Altri chi v’era?”, tu hai dallato quel di Beccheria di cui segò Fiorenza la gorgiera.120 Gianni de’ Soldanier credo che sia più là con Ganellone e Tebaldello, ch’aprì Faenza quando si dormia”.123 Noi eravam partiti già da ello, ch’io vidi due ghiacciati in una buca, sì che l’un capo a l’altro era cappello;126 e come ’l pan per fame si manduca, così ’l sovran li denti a l’altro pose là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:129 non altrimenti Tidëo si rose le tempie a Menalippo per disdegno, che quei faceva il teschio e l’altre cose.132 “O tu che mostri per sì bestial segno odio sovra colui che tu ti mangi, dimmi ’l perché”, diss’io, “per tal convegno,135 che se tu a ragion di lui ti piangi, sappiendo chi voi siete e la sua pecca, nel mondo suso ancora io te ne cangi,138 se quella con ch’io parlo non si secca”. |
Canto 33
Canto XXXIII, ove tratta di quelli che tradirono coloro che in loro tutto si fidavano, e coloro da cui erano stati promossi a dignità e grande stato; e riprende qui i Pisani e i Genovesi. La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a’ capelli del capo ch’elli avea di retro guasto.3 Poi cominciò: “Tu vuo’ ch’io rinovelli disperato dolor che ’l cor mi preme già pur pensando, pria ch’io ne favelli.6 Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo, parlare e lagrimar vedrai insieme.9 Io non so chi tu se’ né per che modo venuto se’ qua giù; ma fiorentino mi sembri veramente quand’io t’odo.12 Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino, e questi è l’arcivescovo Ruggieri: or ti dirò perché i son tal vicino.15 Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso e poscia morto, dir non è mestieri;18 però quel che non puoi avere inteso, cioè come la morte mia fu cruda, udirai, e saprai s’e’ m’ ha offeso.21 Breve pertugio dentro da la Muda, la qual per me ha ’l titol de la fame, e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,24 m’avea mostrato per lo suo forame più lune già, quand’io feci ’l mal sonno che del futuro mi squarciò ’l velame.27 Questi pareva a me maestro e donno, cacciando il lupo e ’ lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno.30 Con cagne magre, studïose e conte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi s’avea messi dinanzi da la fronte.33 In picciol corso mi parieno stanchi lo padre e ’ figli, e con l’agute scane mi parea lor veder fender li fianchi.36 Quando fui desto innanzi la dimane, pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli ch’eran con meco, e dimandar del pane.39 Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava; e se non piangi, di che pianger suoli?42 Già eran desti, e l’ora s’appressava che ’l cibo ne solëa essere addotto, e per suo sogno ciascun dubitava;45 e io senti’ chiavar l’uscio di sotto a l’orribile torre; ond’io guardai nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.48 Io non piangëa, sì dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”.51 Perciò non lagrimai né rispuos’io tutto quel giorno né la notte appresso, infin che l’altro sol nel mondo uscìo.54 Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere, e io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso,57 ambo le man per lo dolor mi morsi; ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia di manicar, di sùbito levorsi60 e disser: “Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia”.63 Queta’ mi allor per non farli più tristi; lo dì e l’altro stemmo tutti muti; ahi dura terra, perché non t’apristi?66 Poscia che fummo al quarto dì venuti, Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi, dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”.69 Quivi morì; e come tu mi vedi, vid’io cascar li tre ad uno ad uno tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,72 già cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due dì li chiamai, poi che fur morti. Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”.75 Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti riprese ’l teschio misero co’ denti, che furo a l’osso, come d’un can, forti.78 Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese là dove ‘l sì suona, poi che i vicini a te punir son lenti,81 muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, sì ch’elli annieghi in te ogne persona!84 Che se ’l conte Ugolino aveva voce d’aver tradita te de le castella, non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.87 Innocenti facea l’età novella, novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata e li altri due che ’l canto suso appella.90 Noi passammo oltre, là ’ve la gelata ruvidamente un’altra gente fascia, non volta in giù, ma tutta riversata.93 Lo pianto stesso lì pianger non lascia, e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer l’ambascia;96 ché le lagrime prime fanno groppo, e sì come visiere di cristallo, rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.99 E avvegna che, sì come d’un callo, per la freddura ciascun sentimento cessato avesse del mio viso stallo,102 già mi parea sentire alquanto vento; per ch’io: “Maestro mio, questo chi move? non è qua giù ogne vapore spento?”.105 Ond’elli a me: “Avaccio sarai dove di ciò ti farà l’occhio la risposta, veggendo la cagion che ’l fiato piove”.108 E un de’ tristi de la fredda crosta gridò a noi: “O anime crudeli tanto che data v’è l’ultima posta,111 levatemi dal viso i duri veli, sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna, un poco, pria che ’l pianto si raggeli”.114 Per ch’io a lui: “Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna, dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo, al fondo de la ghiaccia ir mi convegna”.117 Rispuose adunque: “I’ son frate Alberigo; i’ son quel da le frutta del mal orto, che qui riprendo dattero per figo”.120 “Oh”, diss’io lui, “or se’ tu ancor morto?”. Ed elli a me: “Come ’l mio corpo stea nel mondo sù, nulla scïenza porto.123 Cotal vantaggio ha questa Tolomea, che spesse volte l’anima ci cade innanzi ch’Atropòs mossa le dea.126 E perché tu più volontier mi rade le ’nvetrïate lagrime dal volto, sappie che, tosto che l’anima trade129 come fec’ïo, il corpo suo l’è tolto da un demonio, che poscia il governa mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.132 Ella ruina in sì fatta cisterna; e forse pare ancor lo corpo suso de l’ombra che di qua dietro mi verna.135 Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso: elli è ser Branca Doria, e son più anni poscia passati ch’el fu sì racchiuso”.138 “Io credo”, diss’io lui, “che tu m’inganni; ché Branca Doria non morì unquanche, e mangia e bee e dorme e veste panni”.141 “Nel fosso sù”, diss’el, “de’ Malebranche, là dove bolle la tenace pece, non era ancora giunto Michel Zanche,144 che questi lasciò il diavolo in sua vece nel corpo suo, ed un suo prossimano che ’l tradimento insieme con lui fece.147 Ma distendi oggimai in qua la mano; aprimi li occhi”. E io non gliel’apersi; e cortesia fu lui esser villano.150 Ahi Genovesi, uomini diversi d’ogne costume e pien d’ogne magagna, perché non siete voi del mondo spersi?153 Ché col peggiore spirto di Romagna trovai di voi un tal, che per sua opra in anima in Cocito già si bagna,156 e in corpo par vivo ancor di sopra. |
Canto 34
Canto XXXIV e ultimo de la prima cantica di Dante Alleghieri di Fiorenza, nel qual canto tratta di Belzebù principe de’ dimoni e de’ traditori di loro signori, e narra come uscie de l’inferno. “Vexilla regis prodeunt inferni verso di noi; però dinanzi mira”, disse ’l maestro mio, “se tu ’l discerni”.3 Come quando una grossa nebbia spira, o quando l’emisperio nostro annotta, par di lungi un molin che ’l vento gira,6 veder mi parve un tal dificio allotta; poi per lo vento mi ristrinsi retro al duca mio, ché non lì era altra grotta.9 Già era, e con paura il metto in metro, là dove l’ombre tutte eran coperte, e trasparien come festuca in vetro.12 Altre sono a giacere; altre stanno erte, quella col capo e quella con le piante; altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte.15 Quando noi fummo fatti tanto avante, ch’al mio maestro piacque di mostrarmi la creatura ch’ebbe il bel sembiante,18 d’innanzi mi si tolse e fé restarmi, “Ecco Dite”, dicendo, “ed ecco il loco ove convien che di fortezza t’armi”.21 Com’io divenni allor gelato e fioco, nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo, però ch’ogne parlar sarebbe poco.24 Io non mori’ e non rimasi vivo; pensa oggimai per te, s’ hai fior d’ingegno, qual io divenni, d’uno e d’altro privo.27 Lo ’mperador del doloroso regno da mezzo ’l petto uscia fuor de la ghiaccia; e più con un gigante io mi convegno,30 che i giganti non fan con le sue braccia: vedi oggimai quant’esser dee quel tutto ch’a così fatta parte si confaccia.33 S’el fu sì bel com’elli è ora brutto, e contra ’l suo fattore alzò le ciglia, ben dee da lui procedere ogne lutto.36 Oh quanto parve a me gran maraviglia quand’io vidi tre facce a la sua testa! L’una dinanzi, e quella era vermiglia;39 l’altr’eran due, che s’aggiugnieno a questa sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla, e sé giugnieno al loco de la cresta:42 e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.45 Sotto ciascuna uscivan due grand’ali, quanto si convenia a tanto uccello: vele di mar non vid’io mai cotali.48 Non avean penne, ma di vispistrello era lor modo; e quelle svolazzava, sì che tre venti si movean da ello:51 quindi Cocito tutto s’aggelava. Con sei occhi piangëa, e per tre menti gocciava ’l pianto e sanguinosa bava.54 Da ogne bocca dirompea co’ denti un peccatore, a guisa di maciulla, sì che tre ne facea così dolenti.57 A quel dinanzi il mordere era nulla verso ’l graffiar, che talvolta la schiena rimanea de la pelle tutta brulla.60 “Quell’anima là sù c’ ha maggior pena”, disse ’l maestro, “è Giuda Scarïotto, che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena.63 De li altri due c’ hanno il capo di sotto, quel che pende dal nero ceffo è Bruto: vedi come si storce, e non fa motto!;66 e l’altro è Cassio, che par sì membruto. Ma la notte risurge, e oramai è da partir, ché tutto avem veduto”.69 Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai; ed el prese di tempo e loco poste, e quando l’ali fuoro aperte assai,72 appigliò sé a le vellute coste; di vello in vello giù discese poscia tra ’l folto pelo e le gelate croste.75 Quando noi fummo là dove la coscia si volge, a punto in sul grosso de l’anche, lo duca, con fatica e con angoscia,78 volse la testa ov’elli avea le zanche, e aggrappossi al pel com’om che sale, sì che ’n inferno i’ credea tornar anche.81 “Attienti ben, ché per cotali scale”, disse ’l maestro, ansando com’uom lasso, “conviensi dipartir da tanto male”.84 Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso e puose me in su l’orlo a sedere; appresso porse a me l’accorto passo.87 Io levai li occhi e credetti vedere Lucifero com’io l’avea lasciato, e vidili le gambe in sù tenere;90 e s’io divenni allora travagliato, la gente grossa il pensi, che non vede qual è quel punto ch’io avea passato.93 “Lèvati sù”, disse ’l maestro, “in piede: la via è lunga e ’l cammino è malvagio, e già il sole a mezza terza riede”.96 Non era camminata di palagio là ’v’eravam, ma natural burella ch’avea mal suolo e di lume disagio.99 “Prima ch’io de l’abisso mi divella, maestro mio”, diss’io quando fui dritto, “a trarmi d’erro un poco mi favella:102 ov’è la ghiaccia? e questi com’è fitto sì sottosopra? e come, in sì poc’ora, da sera a mane ha fatto il sol tragitto?”.105 Ed elli a me: “Tu imagini ancora d’esser di là dal centro, ov’io mi presi al pel del vermo reo che ’l mondo fóra.108 Di là fosti cotanto quant’io scesi; quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto al qual si traggon d’ogne parte i pesi.111 E se’ or sotto l’emisperio giunto ch’è contraposto a quel che la gran secca coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto114 fu l’uom che nacque e visse sanza pecca; tu haï i piedi in su picciola spera che l’altra faccia fa de la Giudecca.117 Qui è da man, quando di là è sera; e questi, che ne fé scala col pelo, fitto è ancora sì come prim’era.120 Da questa parte cadde giù dal cielo; e la terra, che pria di qua si sporse, per paura di lui fé del mar velo,123 e venne a l’emisperio nostro; e forse per fuggir lui lasciò qui loco vòto quella ch’appar di qua, e sù ricorse”.126 Luogo è là giù da Belzebù remoto tanto quanto la tomba si distende, che non per vista, ma per suono è noto129 d’un ruscelletto che quivi discende per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso, col corso ch’elli avvolge, e poco pende.132 Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d’alcun riposo,135 salimmo sù, el primo e io secondo, tanto ch’i’ vidi de le cose belle che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.138 E quindi uscimmo a riveder le stelle. |