Undicesimo canto – video
Nell’undicesimo canto Dante e Virgilio si fermano: devono aspettare che i loro nasi si abituino al terribile puzzo che sale dai gironi inferiori.
Approfittano della sosta per parlare e Virgilio spiega a Dante com’è la situazione nella parte dell’inferno in cui stanno entrando.
In su l’estremità d’un’alta ripa che facevan gran pietre rotte in cerchio, venimmo sopra più crudele stipa; 3 e quivi, per l’orribile soperchio del puzzo che ’l profondo abisso gitta, ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio 6 d’un grand’avello, ov’io vidi una scritta che dicea: ’Anastasio papa guardo, lo qual trasse Fotin de la via dritta’. 9 “Lo nostro scender conviene esser tardo, sì che s’ausi un poco in prima il senso al tristo fiato; e poi no i fia riguardo”. 12 Così ’l maestro; e io “Alcun compenso”, dissi lui, “trova che ’l tempo non passi perduto”. Ed elli: “Vedi ch’a ciò penso”. 15 “Figliuol mio, dentro da cotesti sassi”, cominciò poi a dir, “son tre cerchietti di grado in grado, come que’ che lassi. 18 Tutti son pien di spirti maladetti; ma perché poi ti basti pur la vista, intendi come e perché son costretti. 21 D’ogne malizia, ch’odio in cielo acquista, ingiuria è ‘l fine, ed ogne fin cotale o con forza o con frode altrui contrista. 24 Ma perché frode è de l’uom proprio male, più spiace a Dio; e però stan di sotto li frodolenti, e più dolor li assale. 27 Di vïolenti il primo cerchio è tutto; ma perché si fa forza a tre persone, in tre gironi è distinto e costrutto. 30 A Dio, a sé, al prossimo si pòne far forza, dico in loro e in lor cose, come udirai con aperta ragione. 33 Morte per forza e ferute dogliose nel prossimo si danno, e nel suo avere ruine, incendi e tollette dannose; 36 onde omicide e ciascun che mal fiere, guastatori e predon, tutti tormenta lo giron primo per diverse schiere. 39 Puote omo avere in sé man vïolenta e ne’ suoi beni; e però nel secondo giron convien che sanza pro si penta 42 qualunque priva sé del vostro mondo, biscazza e fonde la sua facultade, e piange là dov’esser de’ giocondo. 45 Puossi far forza ne la deïtade, col cor negando e bestemmiando quella, e spregiando natura e sua bontade; 48 e però lo minor giron suggella del segno suo e Soddoma e Caorsa e chi, spregiando Dio col cor, favella. 51 La frode, ond’ogne coscïenza è morsa, può l’omo usare in colui che ‘n lui fida e in quel che fidanza non imborsa. 54 Questo modo di retro par ch’incida pur lo vinco d’amor che fa natura; onde nel cerchio secondo s’annida 57 ipocresia, lusinghe e chi affattura, falsità, ladroneccio e simonia, ruffian, baratti e simile lordura. 60 Per l’altro modo quell’amor s’oblia che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto, di che la fede spezïal si cria; 63 onde nel cerchio minore, ov’è ’l punto de l’universo in su che Dite siede, qualunque trade in etterno è consunto”.66 E io: “Maestro, assai chiara procede la tua ragione, e assai ben distingue questo baràtro e ’l popol ch’e’ possiede. 69 Ma dimmi: quei de la palude pingue, che mena il vento, e che batte la pioggia, e che s’incontran con sì aspre lingue, 72 perché non dentro da la città roggia sono ei puniti, se Dio li ha in ira? e se non li ha, perché sono a tal foggia?”. 75 Ed elli a me “Perché tanto delira”, disse, “lo ’ngegno tuo da quel che sòle? o ver la mente dove altrove mira? 78 Non ti rimembra di quelle parole con le quai la tua Etica pertratta le tre disposizion che ’l ciel non vole, 81 incontenenza, malizia e la matta bestialitade? e come incontenenza men Dio offende e men biasimo accatta? 84. Se tu riguardi ben questa sentenza, e rechiti a la mente chi son quelli che sù di fuor sostegnon penitenza, 87 tu vedrai ben perché da questi felli sien dipartiti, e perché men crucciata la divina vendetta li martelli”. 90 “O sol che sani ogne vista turbata, tu mi contenti sì quando tu solvi, che, non men che saver, dubbiar m’aggrata. 93 Ancora in dietro un poco ti rivolvi”, diss’io, “là dove di’ ch’usura offende la divina bontade, e ’l groppo solvi”.96 “Filosofia”, mi disse, “a chi la ’ntende, nota, non pure in una sola parte, come natura lo suo corso prende 99 dal divino ’ntelletto e da sua arte; e se tu ben la tua Fisica note, tu troverai, non dopo molte carte, 102 che l’arte vostra quella, quanto pote, segue, come ’l maestro fa ’l discente; sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote.105 Da queste due, se tu ti rechi a mente lo Genesì dal principio, convene prender sua vita e avanzar la gente; 108 e perché l’usuriere altra via tene, per sé natura e per la sua seguace dispregia, poi ch’in altro pon la spene. 111 Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace; ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta, e ’l Carro tutto sovra ’l Coro giace, 114 e ’l balzo via là oltra si dismonta”. |
Dodicesimo canto video
Nel dodicesimo canto Dante e Virgilio, dopo essersi fermati a chiacchiere per abituare il naso al puzzo infernale, scendono nel settimo cerchio dell’inferno. Qui scontano i loro peccati i tiranni, che sono immersi nel sangue del Flegetonte. Sono controllati da alcuni centauri.
Proprio un centauro aiuterà Dante ad attraversare il Flegetonte.
Era lo loco ov’a scender la riva venimmo, alpestro e, per quel che v’er’anco, tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva. 3 Qual è quella ruina che nel fianco di qua da Trento l’Adice percosse, o per tremoto o per sostegno manco, 6 che da cima del monte, onde si mosse, al piano è sì la roccia discoscesa, ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse: 9 cotal di quel burrato era la scesa; e ’n su la punta de la rotta lacca l’infamïa di Creti era distesa 12 che fu concetta ne la falsa vacca; e quando vide noi, sé stesso morse, sì come quei cui l’ira dentro fiacca. 15 Lo savio mio inver’ lui gridò: “Forse tu credi che qui sia ’l duca d’Atene, che sù nel mondo la morte ti porse? 18 Pàrtiti, bestia, ché questi non vene ammaestrato da la tua sorella, ma vassi per veder le vostre pene”. 21 Qual è quel toro che si slaccia in quella c’ ha ricevuto già ’l colpo mortale, che gir non sa, ma qua e là saltella, 24 vid’io lo Minotauro far cotale; e quello accorto gridò: “Corri al varco; mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale”. 27 Così prendemmo via giù per lo scarco di quelle pietre, che spesso moviensi sotto i miei piedi per lo novo carco. 30 Io gia pensando; e quei disse: “Tu pensi forse a questa ruina, ch’è guardata da quell’ira bestial ch’i’ ora spensi. 33 Or vo’ che sappi che l’altra fïata ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno, questa roccia non era ancor cascata. 36 Ma certo poco pria, se ben discerno, che venisse colui che la gran preda levò a Dite del cerchio superno, 39 da tutte parti l’alta valle feda tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo sentisse amor, per lo qual è chi creda 42 più volte il mondo in caòsso converso; e in quel punto questa vecchia roccia, qui e altrove, tal fece riverso. 45 Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia la riviera del sangue in la qual bolle qual che per vïolenza in altrui noccia”. 48 Oh cieca cupidigia e ira folle, che sì ci sproni ne la vita corta, e ne l’etterna poi sì mal c’immolle! 51 Io vidi un’ampia fossa in arco torta, come quella che tutto ’l piano abbraccia, secondo ch’avea detto la mia scorta; 54 e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri, armati di saette, come solien nel mondo andare a caccia. 57 Veggendoci calar, ciascun ristette, e de la schiera tre si dipartiro con archi e asticciuole prima elette; 60 e l’un gridò da lungi: “A qual martiro venite voi che scendete la costa? Ditel costinci; se non, l’arco tiro”. 63 Lo mio maestro disse: “La risposta farem noi a Chirón costà di presso: mal fu la voglia tua sempre sì tosta”. 66 Poi mi tentò, e disse: “Quelli è Nesso, che morì per la bella Deianira, e fé di sé la vendetta elli stesso. 69 E quel di mezzo, ch’al petto si mira, è il gran Chirón, il qual nodrì Achille; quell’altro è Folo, che fu sì pien d’ira. 72 Dintorno al fosso vanno a mille a mille, saettando qual anima si svelle del sangue più che sua colpa sortille”. 75 Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: Chirón prese uno strale, e con la cocca fece la barba in dietro a le mascelle. 78 Quando s’ebbe scoperta la gran bocca, disse a’ compagni: “Siete voi accorti che quel di retro move ciò ch’el tocca? 81 Così non soglion far li piè d’i morti”. E ’l mio buon duca, che già li er’al petto, dove le due nature son consorti, 84 rispuose: “Ben è vivo, e sì soletto mostrar li mi convien la valle buia; necessità ’l ci ’nduce, e non diletto. 87 Tal si partì da cantare alleluia che mi commise quest’officio novo: non è ladron, né io anima fuia. 90 Ma per quella virtù per cu’ io movo li passi miei per sì selvaggia strada, danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo, 93 e che ne mostri là dove si guada, e che porti costui in su la groppa, ché non è spirto che per l’aere vada”. 96 Chirón si volse in su la destra poppa, e disse a Nesso: “Torna, e sì li guida, e fa cansar s’altra schiera v’intoppa”. 99 Or ci movemmo con la scorta fida lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facieno alte strida. 102 Io vidi gente sotto infino al ciglio; e ’l gran centauro disse: “E’ son tiranni che dier nel sangue e ne l’aver di piglio. 105 Quivi si piangon li spietati danni; quivi è Alessandro, e Dïonisio fero che fé Cicilia aver dolorosi anni. 108 E quella fronte c’ ha ’l pel così nero, è Azzolino; e quell’altro ch’è biondo, è Opizzo da Esti, il qual per vero 111 fu spento dal figliastro sù nel mondo”. Allor mi volsi al poeta, e quei disse: “Questi ti sia or primo, e io secondo”. 114 Poco più oltre il centauro s’affisse sovr’una gente che ’nfino a la gola parea che di quel bulicame uscisse. 117 Mostrocci un’ombra da l’un canto sola, dicendo: “Colui fesse in grembo a Dio lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola”. 120 Poi vidi gente che di fuor del rio tenean la testa e ancor tutto ’l casso; e di costoro assai riconobb’io. 123 Così a più a più si facea basso quel sangue, sì che cocea pur li piedi; e quindi fu del fosso il nostro passo. 126 “Sì come tu da questa parte vedi lo bulicame che sempre si scema”, disse ’l centauro, “voglio che tu credi 129 che da quest’altra a più a più giù prema lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge ove la tirannia convien che gema. 132 La divina giustizia di qua punge quell’Attila che fu flagello in terra, e Pirro e Sesto; e in etterno munge 135 le lagrime, che col bollor diserra, a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, che fecero a le strade tanta guerra”. 138 Poi si rivolse e ripassossi ’l guazzo. |
Tredicesimo canto video
Nel canto XIII Dante ci presenta le anime di coloro che sono stati violenti contro sé stessi. Qui Dante affronta con delicatezza e rispetto il tema del suicidio attraverso la figura di Pier della Vigna, che era stato consigliere dell’Imperatore Federico II di Svevia.
Non era ancor di là Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato. 3 Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco. 6 Non han sì aspri sterpi né sì folti quelle fiere selvagge che ’n odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. 9 Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno. 12 Ali hanno late, e colli e visi umani, piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre; fanno lamenti in su li alberi strani. 15 E ’l buon maestro “Prima che più entre, sappi che se’ nel secondo girone”, mi cominciò a dire, “e sarai mentre 18 che tu verrai ne l’orribil sabbione. Però riguarda ben; sì vederai cose che torrien fede al mio sermone”. 21 Io sentia d’ogne parte trarre guai e non vedea persona che ’l facesse; per ch’io tutto smarrito m’arrestai. 24 Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse che tante voci uscisser, tra quei bronchi, da gente che per noi si nascondesse. 27 Però disse ’l maestro: “Se tu tronchi qualche fraschetta d’una d’este piante, li pensier c’ hai si faran tutti monchi”. 30 Allor porsi la mano un poco avante e colsi un ramicel da un gran pruno; e ’l tronco suo gridò: “Perché mi schiante?”. 33 Da che fatto fu poi di sangue bruno, ricominciò a dir: “Perché mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno? 36 Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebb’esser la tua man più pia, se state fossimo anime di serpi”. 39 Come d’un stizzo verde ch’arso sia da l’un de’ capi, che da l’altro geme e cigola per vento che va via, 42 sì de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ond’io lasciai la cima cadere, e stetti come l’uom che teme. 45 “S’elli avesse potuto creder prima”, rispuose ’l savio mio, “anima lesa, ciò c’ ha veduto pur con la mia rima, 48 non averebbe in te la man distesa; ma la cosa incredibile mi fece indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa. 51 Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi nel mondo sù, dove tornar li lece”. 54 E ’l tronco: “Sì col dolce dir m’adeschi, ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi perch’ïo un poco a ragionar m’inveschi. 57 Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando, sì soavi, 60 che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi; fede portai al glorïoso offizio, tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi. 63 La meretrice che mai da l’ospizio di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio, 66 infiammò contra me li animi tutti; e li ’nfiammati infiammar sì Augusto, che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti. 69 L’animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto. 72 Per le nove radici d’esto legno vi giuro che già mai non ruppi fede al mio segnor, che fu d’onor sì degno. 75 E se di voi alcun nel mondo riede, conforti la memoria mia, che giace ancor del colpo che ’nvidia le diede”. 78 Un poco attese, e poi “Da ch’el si tace”, disse ’l poeta a me, “non perder l’ora; ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace”. 81 Ond’ïo a lui: “Domandal tu ancora di quel che credi ch’a me satisfaccia; ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora”. 84 Perciò ricominciò: “Se l’om ti faccia liberamente ciò che ’l tuo dir priega, spirito incarcerato, ancor ti piaccia 87 di dirne come l’anima si lega in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, s’alcuna mai di tai membra si spiega”. 90 Allor soffiò il tronco forte, e poi si convertì quel vento in cotal voce: “Brievemente sarà risposto a voi. 93 Quando si parte l’anima feroce dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta, Minòs la manda a la settima foce. 96 Cade in la selva, e non l’è parte scelta; ma là dove fortuna la balestra, quivi germoglia come gran di spelta. 99 Surge in vermena e in pianta silvestra: l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie, fanno dolore, e al dolor fenestra. 102 Come l’altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch’alcuna sen rivesta, ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie. 105 Qui le strascineremo, e per la mesta selva saranno i nostri corpi appesi, ciascuno al prun de l’ombra sua molesta”. 108 Noi eravamo ancora al tronco attesi, credendo ch’altro ne volesse dire, quando noi fummo d’un romor sorpresi, 111 similemente a colui che venire sente ’l porco e la caccia a la sua posta, ch’ode le bestie, e le frasche stormire. 114 Ed ecco due da la sinistra costa, nudi e graffiati, fuggendo sì forte, che de la selva rompieno ogne rosta. 117 Quel dinanzi: “Or accorri, accorri, morte!”. E l’altro, cui pareva tardar troppo, gridava: “Lano, sì non furo accorte 120 le gambe tue a le giostre dal Toppo!”. E poi che forse li fallia la lena, di sé e d’un cespuglio fece un groppo. 123 Di rietro a loro era la selva piena di nere cagne, bramose e correnti come veltri ch’uscisser di catena. 126 In quel che s’appiattò miser li denti, e quel dilaceraro a brano a brano; poi sen portar quelle membra dolenti. 129 Presemi allor la mia scorta per mano, e menommi al cespuglio che piangea per le rotture sanguinenti in vano. 132 “O Iacopo”, dicea, “da Santo Andrea, che t’è giovato di me fare schermo? che colpa ho io de la tua vita rea?”. 135 Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo, disse: “Chi fosti, che per tante punte soffi con sangue doloroso sermo?”. 138 Ed elli a noi: “O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto c’ ha le mie fronde sì da me disgiunte, 141 raccoglietele al piè del tristo cesto. I’ fui de la città che nel Batista mutò ’l primo padrone; ond’ei per questo 144 sempre con l’arte sua la farà trista; e se non fosse che ’n sul passo d’Arno rimane ancor di lui alcuna vista, 147 que’ cittadin che poi la rifondarno sovra ’l cener che d’Attila rimase, avrebber fatto lavorare indarno. 150 Io fei gibetto a me de le mie case”. |
Quattordicesimo canto video
Nel terzo girone del settimo cerchio sono puniti i violenti contro Dio e contro la natura. Questi si trovano su un sabbione infuocato sotto una pioggia di fuoco. In questo girone incontra l’arrogante Capaneo, terribile bestemmiatore che per la sua arroganza fu fulminato da Giove.
Poi che la carità del natio loco mi strinse, raunai le fronde sparte e rende’ le a colui, ch’era già fioco. 3 Indi venimmo al fine ove si parte lo secondo giron dal terzo, e dove si vede di giustizia orribil arte. 6 A ben manifestar le cose nove, dico che arrivammo ad una landa che dal suo letto ogne pianta rimove. 9 La dolorosa selva l’è ghirlanda intorno, come ’l fosso tristo ad essa; quivi fermammo i passi a randa a randa. 12 Lo spazzo era una rena arida e spessa, non d’altra foggia fatta che colei che fu da’ piè di Caton già soppressa. 15 O vendetta di Dio, quanto tu dei esser temuta da ciascun che legge ciò che fu manifesto a li occhi mei! 18 D’anime nude vidi molte gregge che piangean tutte assai miseramente, e parea posta lor diversa legge. 21 Supin giacea in terra alcuna gente, alcuna si sedea tutta raccolta, e altra andava continüamente. 24 Quella che giva ’ntorno era più molta, e quella men che giacëa al tormento, ma più al duolo avea la lingua sciolta. 27 Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento, piovean di foco dilatate falde, come di neve in alpe sanza vento. 30 Quali Alessandro in quelle parti calde d’Indïa vide sopra ’l süo stuolo fiamme cadere infino a terra salde, 33 per ch’ei provide a scalpitar lo suolo con le sue schiere, acciò che lo vapore mei si stingueva mentre ch’era solo: 36 tale scendeva l’etternale ardore; onde la rena s’accendea, com’esca sotto focile, a doppiar lo dolore. 39 Sanza riposo mai era la tresca de le misere mani, or quindi or quinci escotendo da sé l’arsura fresca. 42 I’ cominciai: “Maestro, tu che vinci tutte le cose, fuor che ’ demon duri ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci, 45 chi è quel grande che non par che curi lo ’ncendio e giace dispettoso e torto, sì che la pioggia non par che ’l marturi?”. 48 E quel medesmo, che si fu accorto ch’io domandava il mio duca di lui, gridò: “Qual io fui vivo, tal son morto. 51 Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui crucciato prese la folgore aguta onde l’ultimo dì percosso fui; 54 o s’elli stanchi li altri a muta a muta in Mongibello a la focina negra, chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”, 57 sì com’el fece a la pugna di Flegra, e me saetti con tutta sua forza: non ne potrebbe aver vendetta allegra”. 60 Allora il duca mio parlò di forza tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito: “O Capaneo, in ciò che non s’ammorza 63 la tua superbia, se’ tu più punito; nullo martiro, fuor che la tua rabbia, sarebbe al tuo furor dolor compito”. 66 Poi si rivolse a me con miglior labbia, dicendo: “Quei fu l’un d’i sette regi ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia 69 Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi; ma, com’io dissi lui, li suoi dispetti sono al suo petto assai debiti fregi. 72 Or mi vien dietro, e guarda che non metti, ancor, li piedi ne la rena arsiccia; ma sempre al bosco tien li piedi stretti”. 75 Tacendo divenimmo là ’ve spiccia fuor de la selva un picciol fiumicello, lo cui rossore ancor mi raccapriccia. 78 Quale del Bulicame esce ruscello che parton poi tra lor le peccatrici, tal per la rena giù sen giva quello. 81 Lo fondo suo e ambo le pendici fatt’era ’n pietra, e ’ margini dallato; per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici. 84 “Tra tutto l’altro ch’i’ t’ ho dimostrato, poscia che noi intrammo per la porta lo cui sogliare a nessuno è negato, 87 cosa non fu da li tuoi occhi scorta notabile com’è ’l presente rio, che sovra sé tutte fiammelle ammorta”. 90 Queste parole fuor del duca mio; per ch’io ’l pregai che mi largisse ’l pasto di cui largito m’avëa il disio. 93 “In mezzo mar siede un paese guasto”, diss’elli allora, “che s’appella Creta, sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto. 96 Una montagna v’è che già fu lieta d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida; or è diserta come cosa vieta. 99 Rëa la scelse già per cuna fida del suo figliuolo, e per celarlo meglio, quando piangea, vi facea far le grida. 102 Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, che tien volte le spalle inver’ Dammiata e Roma guarda come süo speglio. 105 La sua testa è di fin oro formata, e puro argento son le braccia e ’l petto, poi è di rame infino a la forcata; 108 da indi in giuso è tutto ferro eletto, salvo che ’l destro piede è terra cotta; e sta ’n su quel, più che ’n su l’altro, eretto. 111 Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta d’una fessura che lagrime goccia, le quali, accolte, fóran quella grotta. 114 Lor corso in questa valle si diroccia; fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; poi sen van giù per questa stretta doccia, 117 infin, là ove più non si dismonta, fanno Cocito; e qual sia quello stagno tu lo vedrai, però qui non si conta”. 120 E io a lui: “Se ’l presente rigagno si diriva così dal nostro mondo, perché ci appar pur a questo vivagno?”. 123 Ed elli a me: “Tu sai che ’l loco è tondo; e tutto che tu sie venuto molto, pur a sinistra, giù calando al fondo, 126 non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto; per che, se cosa n’apparisce nova, non de’ addur maraviglia al tuo volto”. 129 E io ancor: “Maestro, ove si trova Flegetonta e Letè? ché de l’un taci, e l’altro di’ che si fa d’esta piova”. 132 “In tutte tue question certo mi piaci”, rispuose, “ma ’l bollor de l’acqua rossa dovea ben solver l’una che tu faci. 135 Letè vedrai, ma fuor di questa fossa, là dove vanno l’anime a lavarsi quando la colpa pentuta è rimossa”. 138 Poi disse: “Omai è tempo da scostarsi dal bosco; fa che di retro a me vegne: li margini fan via, che non son arsi, 141 e sopra loro ogne vapor si spegne”. |
Quindicesimo canto video
Nel canto XV Dante e Virgilio sono ancora sul bordo del sabbione ardente. Mentre guardano alla schiera che corre sotto la pioggia di fuoco un’anima si rivolge a Dante. Si tratta del suo maestro Brunetto Latini, autore del Tesoretto, un importante testo medievale. Brunetto ha avuto un ruolo importante nella formazione di Dante e il discepolo prova grande riconoscenza in confronto di “Ser Brunetto”.
Ora cen porta l’un de’ duri margini; e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia, sì che dal foco salva l’acqua e li argini. 3 Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa, fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia; 6 e quali Padoan lungo la Brenta, per difender lor ville e lor castelli, anzi che Carentana il caldo senta: 9 a tale imagine eran fatti quelli, tutto che né sì alti né sì grossi, qual che si fosse, lo maestro félli. 12 Già eravam da la selva rimossi tanto, ch’i’ non avrei visto dov’era, perch’io in dietro rivolto mi fossi, 15 quando incontrammo d’anime una schiera che venian lungo l’argine, e ciascuna ci riguardava come suol da sera 18 guardare uno altro sotto nuova luna; e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia come ’l vecchio sartor fa ne la cruna. 21 Così adocchiato da cotal famiglia, fui conosciuto da un, che mi prese per lo lembo e gridò: “Qual maraviglia!”. 24 E io, quando ’l suo braccio a me distese, ficcaï li occhi per lo cotto aspetto, sì che ’l viso abbrusciato non difese 27 la conoscenza süa al mio ’ntelletto; e chinando la mano a la sua faccia, rispuosi: “Siete voi qui, ser Brunetto?”. 30 E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia”. 33 I’ dissi lui: “Quanto posso, ven preco; e se volete che con voi m’asseggia, faròl, se piace a costui che vo seco”. 36 “O figliuol”, disse, “qual di questa greggia s’arresta punto, giace poi cent’anni sanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia. 39 Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni; e poi rigiugnerò la mia masnada, che va piangendo i suoi etterni danni”. 42 Io non osava scender de la strada per andar par di lui; ma ’l capo chino tenea com’uom che reverente vada. 45 El cominciò: “Qual fortuna o destino anzi l’ultimo dì qua giù ti mena? e chi è questi che mostra ’l cammino?”. 48 “Là sù di sopra, in la vita serena”, rispuos’io lui, “mi smarri’ in una valle, avanti che l’età mia fosse piena.51 Pur ier mattina le volsi le spalle: questi m’apparve, tornand’ïo in quella, e reducemi a ca per questo calle”.54 Ed elli a me: “Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorïoso porto, se ben m’accorsi ne la vita bella;57 e s’io non fossi sì per tempo morto, veggendo il cielo a te così benigno, dato t’avrei a l’opera conforto.60 Ma quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico, e tiene ancor del monte e del macigno,63 ti si farà, per tuo ben far, nimico; ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi si disconvien fruttare al dolce fico.66 Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gent’è avara, invidiosa e superba: dai lor costumi fa che tu ti forbi.69 La tua fortuna tanto onor ti serba, che l’una parte e l’altra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco l’erba.72 Faccian le bestie fiesolane strame di lor medesme, e non tocchin la pianta, s’alcuna surge ancora in lor letame,75 in cui riviva la sementa santa di que’ Roman che vi rimaser quando fu fatto il nido di malizia tanta”.78 “Se fosse tutto pieno il mio dimando”, rispuos’io lui, “voi non sareste ancora de l’umana natura posto in bando;81 ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora, la cara e buona imagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora84 m’insegnavate come l’uom s’etterna: e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo convien che ne la mia lingua si scerna.87 Ciò che narrate di mio corso scrivo, e serbolo a chiosar con altro testo a donna che saprà, s’a lei arrivo.90 Tanto vogl’io che vi sia manifesto, pur che mia coscïenza non mi garra, ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.93 Non è nuova a li orecchi miei tal arra: però giri Fortuna la sua rota come le piace, e ’l villan la sua marra”.96 Lo mio maestro allora in su la gota destra si volse in dietro e riguardommi; poi disse: “Bene ascolta chi la nota”.99 Né per tanto di men parlando vommi con ser Brunetto, e dimando chi sono li suoi compagni più noti e più sommi.102 Ed elli a me: “Saper d’alcuno è buono; de li altri fia laudabile tacerci, ché ’l tempo saria corto a tanto suono.105 In somma sappi che tutti fur cherci e litterati grandi e di gran fama, d’un peccato medesmo al mondo lerci.108 Priscian sen va con quella turba grama, e Francesco d’Accorso anche; e vedervi, s’avessi avuto di tal tigna brama,111 colui potei che dal servo de’ servi fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione, dove lasciò li mal protesi nervi.114 Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone più lungo esser non può, però ch’i’ veggio là surger nuovo fummo del sabbione.117 Gente vien con la quale esser non deggio. Sieti raccomandato il mio Tesoro, nel qual io vivo ancora, e più non cheggio”.120 Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro123 quelli che vince, non colui che perde. |
Sedicesimo canto video
Il sedicesimo canto può essere diviso in due parti. Si trovano ancora nel girone dei sodomiti quando vendono fermati da tre fiorentini che si staccano da un’altra schera di anime che corrono lungo il sabbione infernale. Nella seconda parte i due pellegrini si avviano verso il successivo cerchio a cui arriveranno tramite un altro terribile custode infernale: Gerione.
Già era in loco onde s’udia ’l rimbombo de l’acqua che cadea ne l’altro giro, simile a quel che l’arnie fanno rombo, 3 quando tre ombre insieme si partiro, correndo, d’una torma che passava sotto la pioggia de l’aspro martiro. 6 Venian ver’ noi, e ciascuna gridava: “Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri essere alcun di nostra terra prava”. 9 Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri, ricenti e vecchie, da le fiamme incese! Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri. 12 A le lor grida il mio dottor s’attese; volse ’l viso ver’ me, e “Or aspetta”, disse, “a costor si vuole esser cortese. 15 E se non fosse il foco che saetta la natura del loco, i’ dicerei che meglio stesse a te che a lor la fretta”. 18 Ricominciar, come noi restammo, ei l’antico verso; e quando a noi fuor giunti, fenno una rota di sé tutti e trei. 21 Qual sogliono i campion far nudi e unti, avvisando lor presa e lor vantaggio, prima che sien tra lor battuti e punti, 24 così rotando, ciascuno il visaggio drizzava a me, sì che ’n contraro il collo faceva ai piè continüo vïaggio. 27 E “Se miseria d’esto loco sollo rende in dispetto noi e nostri prieghi”, cominciò l’uno, “e ’l tinto aspetto e brollo, 30 la fama nostra il tuo animo pieghi a dirne chi tu se’, che i vivi piedi così sicuro per lo ’nferno freghi. 33 Questi, l’orme di cui pestar mi vedi, tutto che nudo e dipelato vada, fu di grado maggior che tu non credi: 36 nepote fu de la buona Gualdrada; Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita fece col senno assai e con la spada. 39 L’altro, ch’appresso me la rena trita, è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce nel mondo sù dovria esser gradita. 42 E io, che posto son con loro in croce, Iacopo Rusticucci fui, e certo la fiera moglie più ch’altro mi nuoce”. 45 S’i’ fossi stato dal foco coperto, gittato mi sarei tra lor di sotto, e credo che ’l dottor l’avria sofferto; 48 ma perch’io mi sarei brusciato e cotto, vinse paura la mia buona voglia che di loro abbracciar mi facea ghiotto. 51 Poi cominciai: “Non dispetto, ma doglia la vostra condizion dentro mi fisse, tanta che tardi tutta si dispoglia, 54 tosto che questo mio segnor mi disse parole per le quali i’ mi pensai che qual voi siete, tal gente venisse. 57 Di vostra terra sono, e sempre mai l’ovra di voi e li onorati nomi con affezion ritrassi e ascoltai. 60 Lascio lo fele e vo per dolci pomi promessi a me per lo verace duca; ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi”. 63 “Se lungamente l’anima conduca le membra tue”, rispuose quelli ancora, “e se la fama tua dopo te luca, 66 cortesia e valor dì se dimora ne la nostra città sì come suole, o se del tutto se n’è gita fora; 69 ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole con noi per poco e va là coi compagni, assai ne cruccia con le sue parole”.72 “La gente nuova e i sùbiti guadagni orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni”.75 Così gridai con la faccia levata; e i tre, che ciò inteser per risposta, guardar l’un l’altro com’al ver si guata.78 “Se l’altre volte sì poco ti costa”, rispuoser tutti, “il satisfare altrui, felice te se sì parli a tua posta!81 Però, se campi d’esti luoghi bui e torni a riveder le belle stelle, quando ti gioverà dicere “I’ fui”,84 fa che di noi a la gente favelle”. Indi rupper la rota, e a fuggirsi ali sembiar le gambe loro isnelle.87 Un amen non saria possuto dirsi tosto così com’e’ fuoro spariti; per ch’al maestro parve di partirsi.90 Io lo seguiva, e poco eravam iti, che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino, che per parlar saremmo a pena uditi.93 Come quel fiume c’ ha proprio cammino prima dal Monte Viso ’nver’ levante, da la sinistra costa d’Apennino,96 che si chiama Acquacheta suso, avante che si divalli giù nel basso letto, e a Forlì di quel nome è vacante,99 rimbomba là sovra San Benedetto de l’Alpe per cadere ad una scesa ove dovea per mille esser recetto;102 così, giù d’una ripa discoscesa, trovammo risonar quell’acqua tinta, sì che ’n poc’ora avria l’orecchia offesa.105 Io avea una corda intorno cinta, e con essa pensai alcuna volta prender la lonza a la pelle dipinta.108 Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta, sì come ’l duca m’avea comandato, porsila a lui aggroppata e ravvolta.111 Ond’ei si volse inver’ lo destro lato, e alquanto di lunge da la sponda la gittò giuso in quell’alto burrato.114 ’E’ pur convien che novità risponda’, dicea fra me medesmo, ’al novo cenno che ’l maestro con l’occhio sì seconda’.117 Ahi quanto cauti li uomini esser dienno presso a color che non veggion pur l’ovra, ma per entro i pensier miran col senno!120 El disse a me: “Tosto verrà di sovra ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna; tosto convien ch’al tuo viso si scovra”.123 Sempre a quel ver c’ ha faccia di menzogna de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote, però che sanza colpa fa vergogna;126 ma qui tacer nol posso; e per le note di questa comedìa, lettor, ti giuro, s’elle non sien di lunga grazia vòte,129 ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro venir notando una figura in suso, maravigliosa ad ogne cor sicuro,132 sì come torna colui che va giuso talora a solver l’àncora ch’aggrappa o scoglio o altro che nel mare è chiuso,135 che ’n sù si stende e da piè si rattrappa. |
Diciassettesimo canto video
Questo canto è diviso in tre parti. Nella prima incontriamo Gerione, l’orribile bestia, che porterà Dante e Virgilio nel cerchio successivo.
Mentre Virgilio prende accordi con Gerione per scendere nell’ ottavo cerchio de l’inferno, Dante va a parlare con l’ultima schiera dei violenti, gli usurai. Quindi Dante torna a Virgilio e si accinge a fare un incredibile volo verso l’ottavo cerchio, sul dorso di Gerione.
“Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti e rompe i muri e l’armi! Ecco colei che tutto ‘l mondo appuzza!”.3 Sì cominciò lo mio duca a parlarmi; e accennolle che venisse a proda, vicino al fin d’i passeggiati marmi.6 E quella sozza imagine di froda sen venne, e arrivò la testa e ’l busto, ma ’n su la riva non trasse la coda.9 La faccia sua era faccia d’uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d’un serpente tutto l’altro fusto;12 due branche avea pilose insin l’ascelle; lo dosso e ’l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle.15 Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari né Turchi, né fuor tai tele per Aragne imposte.18 Come talvolta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come là tra li Tedeschi lurchi21 lo bivero s’assetta a far sua guerra, così la fiera pessima si stava su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra.24 Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in sù la venenosa forca ch’a guisa di scorpion la punta armava.27 Lo duca disse: “Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella bestia malvagia che colà si corca”.30 Però scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella.33 E quando noi a lei venuti semo, poco più oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo.36 Quivi ’l maestro “Acciò che tutta piena esperïenza d’esto giron porti”, mi disse, “va, e vedi la lor mena.39 Li tuoi ragionamenti sian là corti; mentre che torni, parlerò con questa, che ne conceda i suoi omeri forti”.42 Così ancor su per la strema testa di quel settimo cerchio tutto solo andai, dove sedea la gente mesta.45 Per li occhi fora scoppiava lor duolo; di qua, di là soccorrien con le mani quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:48 non altrimenti fan di state i cani or col ceffo or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani.51 Poi che nel viso a certi li occhi porsi, ne’ quali ’l doloroso foco casca, non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi54 che dal collo a ciascun pendea una tasca ch’avea certo colore e certo segno, e quindi par che ’l loro occhio si pasca.57 E com’io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d’un leone avea faccia e contegno.60 Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine un’altra come sangue rossa, mostrando un’oca bianca più che burro.63 E un che d’una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco, mi disse: “Che fai tu in questa fossa?66 Or te ne va; e perché se’ vivo anco, sappi che ’l mio vicin Vitalïano sederà qui dal mio sinistro fianco.69 Con questi Fiorentin son padoano: spesse fïate mi ’ntronan li orecchi gridando: “Vegna ’l cavalier sovrano,72 che recherà la tasca con tre becchi!””. Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che ’l naso lecchi.75 E io, temendo no ’l più star crucciasse lui che di poco star m’avea ’mmonito, torna’ mi in dietro da l’anime lasse.78 Trova’ il duca mio ch’era salito già su la groppa del fiero animale, e disse a me: “Or sie forte e ardito.81 Omai si scende per sì fatte scale; monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo, sì che la coda non possa far male”.84 Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo de la quartana, c’ ha già l’unghie smorte, e triema tutto pur guardando ’l rezzo,87 tal divenn’io a le parole porte; ma vergogna mi fé le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte.90 I’ m’assettai in su quelle spallacce; sì volli dir, ma la voce non venne com’io credetti: ’Fa che tu m’abbracce’.93 Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne ad altro forse, tosto ch’i’ montai con le braccia m’avvinse e mi sostenne;96 e disse: “Gerïon, moviti omai: le rote larghe, e lo scender sia poco; pensa la nova soma che tu hai”.99 Come la navicella esce di loco in dietro in dietro, sì quindi si tolse; e poi ch’al tutto si sentì a gioco,102 là ’v’era ’l petto, la coda rivolse, e quella tesa, come anguilla, mosse, e con le branche l’aere a sé raccolse.105 Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte abbandonò li freni, per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;108 né quando Icaro misero le reni sentì spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui “Mala via tieni!”,111 che fu la mia, quando vidi ch’i’ era ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta ogne veduta fuor che de la fera.114 Ella sen va notando lenta lenta; rota e discende, ma non me n’accorgo se non che al viso e di sotto mi venta.117 Io sentia già da la man destra il gorgo far sotto noi un orribile scroscio, per che con li occhi ’n giù la testa sporgo.120 Allor fu’ io più timido a lo stoscio, però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti; ond’io tremando tutto mi raccoscio.123 E vidi poi, ché nol vedea davanti, lo scendere e ’l girar per li gran mali che s’appressavan da diversi canti.126 Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali, che sanza veder logoro o uccello fa dire al falconiere “Omè, tu cali!”,129 discende lasso onde si move isnello, per cento rote, e da lunge si pone dal suo maestro, disdegnoso e fello;132 così ne puose al fondo Gerïone al piè al piè de la stagliata rocca, e, discarcate le nostre persone,135 si dileguò come da corda cocca. |
Diciottesimo canto video
I due pellegrini vengono lasciati sul bordo dell’ottavo girone che raccoglie le anime dei frudolenti.
La varietà dei peccatori è tale che il girone è diviso in dieci bolge, una per ogni tipo di frode.
- 1.seduttori
- 2.adulatori
- 3.simoniaci
- 4.indovini
- 5.barattieri
- 6.ipocriti
- 7.ladri
- 8.mali consiglieri
- 9.seminatori di discordie
- 10.falsari e alchimisti
Nel canto XVIII vediamo le prime due malebolge, quelle dei seduttori e degli adulatori.
Luogo è in inferno detto Malebolge, tutto di pietra di color ferrigno, come la cerchia che dintorno il volge.3 Nel dritto mezzo del campo maligno vaneggia un pozzo assai largo e profondo, di cui suo loco dicerò l’ordigno. Quel cinghio che rimane adunque è tondo tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura, e ha distinto in dieci valli il fondo. Quale, dove per guardia de le mura più e più fossi cingon li castelli, la parte dove son rende figura,12 tale imagine quivi facean quelli; e come a tai fortezze da’ lor sogli a la ripa di fuor son ponticelli,15 così da imo de la roccia scogli movien che ricidien li argini e ’ fossi infino al pozzo che i tronca e raccogli.18 In questo luogo, de la schiena scossi di Gerïon, trovammoci; e ’l poeta tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.21 A la man destra vidi nova pieta, novo tormento e novi frustatori, di che la prima bolgia era repleta.24 Nel fondo erano ignudi i peccatori; dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto, di là con noi, ma con passi maggiori,27 come i Roman per l’essercito molto, l’anno del giubileo, su per lo ponte hanno a passar la gente modo colto,30 che da l’un lato tutti hanno la fronte verso ’l castello e vanno a Santo Pietro, da l’altra sponda vanno verso ’l monte.33 Di qua, di là, su per lo sasso tetro vidi demon cornuti con gran ferze, che li battien crudelmente di retro.36 Ahi come facean lor levar le berze a le prime percosse! già nessuno le seconde aspettava né le terze.39 Mentr’io andava, li occhi miei in uno furo scontrati; e io sì tosto dissi: “Già di veder costui non son digiuno”.42 Per ch’ïo a figurarlo i piedi affissi; e ’l dolce duca meco si ristette, e assentio ch’alquanto in dietro gissi.45 E quel frustato celar si credette bassando ’l viso; ma poco li valse, ch’io dissi: “O tu che l’occhio a terra gette,48 se le fazion che porti non son false, Venedico se’ tu Caccianemico. Ma che ti mena a sì pungenti salse?”.51 Ed elli a me: “Mal volontier lo dico; ma sforzami la tua chiara favella, che mi fa sovvenir del mondo antico.54 I’ fui colui che la Ghisolabella condussi a far la voglia del marchese, come che suoni la sconcia novella.57 E non pur io qui piango bolognese; anzi n’è questo loco tanto pieno, che tante lingue non son ora apprese60 a dicer ’sipa’ tra Sàvena e Reno; e se di ciò vuoi fede o testimonio, rècati a mente il nostro avaro seno”.63 Così parlando il percosse un demonio de la sua scurïada, e disse: “Via, ruffian! qui non son femmine da conio”.66 I’ mi raggiunsi con la scorta mia; poscia con pochi passi divenimmo là ’v’uno scoglio de la ripa uscia.69 Assai leggeramente quel salimmo; e vòlti a destra su per la sua scheggia, da quelle cerchie etterne ci partimmo.72 Quando noi fummo là dov’el vaneggia di sotto per dar passo a li sferzati, lo duca disse: “Attienti, e fa che feggia75 lo viso in te di quest’altri mal nati, ai quali ancor non vedesti la faccia però che son con noi insieme andati”.78 Del vecchio ponte guardavam la traccia che venìa verso noi da l’altra banda, e che la ferza similmente scaccia.81 E ’l buon maestro, sanza mia dimanda, mi disse: “Guarda quel grande che vene, e per dolor non par lagrime spanda:84 quanto aspetto reale ancor ritene! Quelli è Iasón, che per cuore e per senno li Colchi del monton privati féne.87 Ello passò per l’isola di Lenno poi che l’ardite femmine spietate tutti li maschi loro a morte dienno.90 Ivi con segni e con parole ornate Isifile ingannò, la giovinetta che prima avea tutte l’altre ingannate.93 Lasciolla quivi, gravida, soletta; tal colpa a tal martiro lui condanna; e anche di Medea si fa vendetta.96 Con lui sen va chi da tal parte inganna; e questo basti de la prima valle sapere e di color che ’n sé assanna”.99 Già eravam là ’ve lo stretto calle con l’argine secondo s’incrocicchia, e fa di quello ad un altr’arco spalle.102 Quindi sentimmo gente che si nicchia ne l’altra bolgia e che col muso scuffa, e sé medesma con le palme picchia.105 Le ripe eran grommate d’una muffa, per l’alito di giù che vi s’appasta, che con li occhi e col naso facea zuffa.108 Lo fondo è cupo sì, che non ci basta loco a veder sanza montare al dosso de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta.111 Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso vidi gente attuffata in uno sterco che da li uman privadi parea mosso.114 E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, vidi un col capo sì di merda lordo, che non parëa s’era laico o cherco.117 Quei mi sgridò: “Perché se’ tu sì gordo di riguardar più me che li altri brutti?”. E io a lui: “Perché, se ben ricordo,120 già t’ ho veduto coi capelli asciutti, e se’ Alessio Interminei da Lucca: però t’adocchio più che li altri tutti”.123 Ed elli allor, battendosi la zucca: “Qua giù m’ hanno sommerso le lusinghe ond’io non ebbi mai la lingua stucca”.126 Appresso ciò lo duca “Fa che pinghe”, mi disse, “il viso un poco più avante, sì che la faccia ben con l’occhio attinghe129 di quella sozza e scapigliata fante che là si graffia con l’unghie merdose, e or s’accoscia e ora è in piedi stante.132 Taïde è, la puttana che rispuose al drudo suo quando disse “Ho io grazie grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”.135 E quinci sian le nostre viste sazie”. |
Diciannovesimo canto video
In questo canto Dante inveisce contro i simoniaci, religiosi che hanno venduto e comprato con il denaro le cose sacre, i beni spirituali e gli uffici ecclesiastici.
Molti papi si trovano qui in questa terza bolgia
O Simon mago, o miseri seguaci che le cose di Dio, che di bontate deon essere spose, e voi rapaci3 per oro e per argento avolterate, or convien che per voi suoni la tromba, però che ne la terza bolgia state.6 Già eravamo, a la seguente tomba, montati de lo scoglio in quella parte ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba.9 O somma sapïenza, quanta è l’arte che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, e quanto giusto tua virtù comparte!12 Io vidi per le coste e per lo fondo piena la pietra livida di fóri, d’un largo tutti e ciascun era tondo.15 Non mi parean men ampi né maggiori che que’ che son nel mio bel San Giovanni, fatti per loco d’i battezzatori;18 l’un de li quali, ancor non è molt’anni, rupp’io per un che dentro v’annegava: e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni.21 Fuor de la bocca a ciascun soperchiava d’un peccator li piedi e de le gambe infino al grosso, e l’altro dentro stava.24 Le piante erano a tutti accese intrambe; per che sì forte guizzavan le giunte, che spezzate averien ritorte e strambe.27 Qual suole il fiammeggiar de le cose unte muoversi pur su per la strema buccia, tal era lì dai calcagni a le punte.30 “Chi è colui, maestro, che si cruccia guizzando più che li altri suoi consorti”, diss’io, “e cui più roggia fiamma succia?”.33 Ed elli a me: “Se tu vuo’ ch’i’ ti porti là giù per quella ripa che più giace, da lui saprai di sé e de’ suoi torti”.36 E io: “Tanto m’è bel, quanto a te piace: tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto dal tuo volere, e sai quel che si tace”.39 Allor venimmo in su l’argine quarto; volgemmo e discendemmo a mano stanca là giù nel fondo foracchiato e arto.42 Lo buon maestro ancor de la sua anca non mi dipuose, sì mi giunse al rotto di quel che si piangeva con la zanca.45 “O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto, anima trista come pal commessa”, comincia’ io a dir, “se puoi, fa motto”.48 Io stava come ’l frate che confessa lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto, richiama lui per che la morte cessa.51 Ed el gridò: “Se’ tu già costì ritto, se’ tu già costì ritto, Bonifazio? Di parecchi anni mi mentì lo scritto.54 Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio per lo qual non temesti tòrre a ’nganno la bella donna, e poi di farne strazio?”.57 Tal mi fec’io, quai son color che stanno, per non intender ciò ch’è lor risposto, quasi scornati, e risponder non sanno.60 Allor Virgilio disse: “Dilli tosto: “Non son colui, non son colui che credi””; e io rispuosi come a me fu imposto.63 Per che lo spirto tutti storse i piedi; poi, sospirando e con voce di pianto, mi disse: “Dunque che a me richiedi?66 Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto, che tu abbi però la ripa corsa, sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;69 e veramente fui figliuol de l’orsa, cupido sì per avanzar li orsatti, che sù l’avere e qui me misi in borsa.72 Di sotto al capo mio son li altri tratti che precedetter me simoneggiando, per le fessure de la pietra piatti.75 Là giù cascherò io altresì quando verrà colui ch’i’ credea che tu fossi, allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.78 Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi e ch’i’ son stato così sottosopra, ch’el non starà piantato coi piè rossi:81 ché dopo lui verrà di più laida opra, di ver’ ponente, un pastor sanza legge, tal che convien che lui e me ricuopra.84 Nuovo Iasón sarà, di cui si legge ne’ Maccabei; e come a quel fu molle suo re, così fia lui chi Francia regge”.87 Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle, ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro: “Deh, or mi dì: quanto tesoro volle90 Nostro Segnore in prima da san Pietro ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa? Certo non chiese se non “Viemmi retro”.93 Né Pier né li altri tolsero a Matia oro od argento, quando fu sortito al loco che perdé l’anima ria.96 Però ti sta, ché tu se’ ben punito; e guarda ben la mal tolta moneta ch’esser ti fece contra Carlo ardito.99 E se non fosse ch’ancor lo mi vieta la reverenza de le somme chiavi che tu tenesti ne la vita lieta,102 io userei parole ancor più gravi; ché la vostra avarizia il mondo attrista, calcando i buoni e sollevando i pravi.105 Di voi pastor s’accorse il Vangelista, quando colei che siede sopra l’acque puttaneggiar coi regi a lui fu vista;108 quella che con le sette teste nacque, e da le diece corna ebbe argomento, fin che virtute al suo marito piacque.111 Fatto v’avete dio d’oro e d’argento; e che altro è da voi a l’idolatre, se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?114 Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!”.117 E mentr’io li cantava cotai note, o ira o coscïenza che ’l mordesse, forte spingava con ambo le piote.120 I’ credo ben ch’al mio duca piacesse, con sì contenta labbia sempre attese lo suon de le parole vere espresse.123 Però con ambo le braccia mi prese; e poi che tutto su mi s’ebbe al petto, rimontò per la via onde discese.126 Né si stancò d’avermi a sé distretto, sì men portò sovra ’l colmo de l’arco che dal quarto al quinto argine è tragetto.129 Quivi soavemente spuose il carco, soave per lo scoglio sconcio ed erto che sarebbe a le capre duro varco.132 Indi un altro vallon mi fu scoperto. |
Ventesimo canto video
Nel ventesimo canto Dante e Virgilio attraversano nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio dove sono puniti gli indovini. Questi sono obbligati a camminare a ritroso con la testa girata all’indietro. In questo canto poi Virgilio racconta a Dante quali sono le origini della città di Mantova.
Di nova pena mi conven far versi e dar matera al ventesimo canto de la prima canzon, ch’è d’i sommersi.3 Io era già disposto tutto quanto a riguardar ne lo scoperto fondo, che si bagnava d’angoscioso pianto;6 e vidi gente per lo vallon tondo venir, tacendo e lagrimando, al passo che fanno le letane in questo mondo.9 Come ’l viso mi scese in lor più basso, mirabilmente apparve esser travolto ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso,12 ché da le reni era tornato ’l volto, e in dietro venir li convenia, perché ’l veder dinanzi era lor tolto.15 Forse per forza già di parlasia si travolse così alcun del tutto; ma io nol vidi, né credo che sia.18 Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto di tua lezione, or pensa per te stesso com’io potea tener lo viso asciutto,21 quando la nostra imagine di presso vidi sì torta, che ’l pianto de li occhi le natiche bagnava per lo fesso.24 Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi del duro scoglio, sì che la mia scorta mi disse: “Ancor se’ tu de li altri sciocchi?27 Qui vive la pietà quand’è ben morta; chi è più scellerato che colui che al giudicio divin passion comporta?30 Drizza la testa, drizza, e vedi a cui s’aperse a li occhi d’i Teban la terra; per ch’ei gridavan tutti: “Dove rui,33 Anfïarao? perché lasci la guerra?”. E non restò di ruinare a valle fino a Minòs che ciascheduno afferra.36 Mira c’ ha fatto petto de le spalle; perché volse veder troppo davante, di retro guarda e fa retroso calle.39 Vedi Tiresia, che mutò sembiante quando di maschio femmina divenne, cangiandosi le membra tutte quante;42 e prima, poi, ribatter li convenne li duo serpenti avvolti, con la verga, che rïavesse le maschili penne.45 Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga, che ne’ monti di Luni, dove ronca lo Carrarese che di sotto alberga,48 ebbe tra ’ bianchi marmi la spelonca per sua dimora; onde a guardar le stelle e ’l mar non li era la veduta tronca.51 E quella che ricuopre le mammelle, che tu non vedi, con le trecce sciolte, e ha di là ogne pilosa pelle,54 Manto fu, che cercò per terre molte; poscia si puose là dove nacqu’ io; onde un poco mi piace che m’ascolte.57 Poscia che ’l padre suo di vita uscìo e venne serva la città di Baco, questa gran tempo per lo mondo gio.60 Suso in Italia bella giace un laco, a piè de l’Alpe che serra Lamagna sovra Tiralli, c’ ha nome Benaco.63 Per mille fonti, credo, e più si bagna tra Garda e Val Camonica e Pennino de l’acqua che nel detto laco stagna.66 Loco è nel mezzo là dove ’l trentino pastore e quel di Brescia e ’l veronese segnar poria, s’e’ fesse quel cammino.69 Siede Peschiera, bello e forte arnese da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi, ove la riva ’ntorno più discese.72 Ivi convien che tutto quanto caschi ciò che ’n grembo a Benaco star non può, e fassi fiume giù per verdi paschi.75 Tosto che l’acqua a correr mette co, non più Benaco, ma Mencio si chiama fino a Governol, dove cade in Po.78 Non molto ha corso, ch’el trova una lama, ne la qual si distende e la ’mpaluda; e suol di state talor esser grama.81 Quindi passando la vergine cruda vide terra, nel mezzo del pantano, sanza coltura e d’abitanti nuda.84 Lì, per fuggire ogne consorzio umano, ristette con suoi servi a far sue arti, e visse, e vi lasciò suo corpo vano.87 Li uomini poi che ’ntorno erano sparti s’accolsero a quel loco, ch’era forte per lo pantan ch’avea da tutte parti.90 Fer la città sovra quell’ossa morte; e per colei che ’l loco prima elesse, Mantüa l’appellar sanz’altra sorte.93 Già fuor le genti sue dentro più spesse, prima che la mattia da Casalodi da Pinamonte inganno ricevesse.96 Però t’assenno che, se tu mai odi originar la mia terra altrimenti, la verità nulla menzogna frodi”.99 E io: “Maestro, i tuoi ragionamenti mi son sì certi e prendon sì mia fede, che li altri mi sarien carboni spenti.102 Ma dimmi, de la gente che procede, se tu ne vedi alcun degno di nota; ché solo a ciò la mia mente rifiede”.105 Allor mi disse: “Quel che da la gota porge la barba in su le spalle brune, fu – quando Grecia fu di maschi vòta,108 sì ch’a pena rimaser per le cune – augure, e diede ’l punto con Calcanta in Aulide a tagliar la prima fune.111 Euripilo ebbe nome, e così ’l canta l’alta mia tragedìa in alcun loco: ben lo sai tu che la sai tutta quanta.114 Quell’altro che ne’ fianchi è così poco, Michele Scotto fu, che veramente de le magiche frode seppe ’l gioco.117 Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente, ch’avere inteso al cuoio e a lo spago ora vorrebbe, ma tardi si pente.120 Vedi le triste che lasciaron l’ago, la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine; fecer malie con erbe e con imago.123 Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine d’amendue li emisperi e tocca l’onda sotto Sobilia Caino e le spine;126 e già iernotte fu la luna tonda: ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque alcuna volta per la selva fonda”.129 Sì mi parlava, e andavamo introcque. |
Il poeta si rivolge a noi lettori e dice che nel ventesimo canto della prima cantica gli tocca raccontare con i suoi versi la nuova pena a cui sono sottoposti i dannati che qui sono raccolti.
Dante afferma di essere stato molto concentrato nel guardare giù nel fondo della bolgia del vallone; qui vide che il fondo del vallone era bagnato dalle lacrime dei dannati che piangevano angosciati.
Dante riferisce di aver visto venire gente verso di lui, lungo questo vallone tondo; questi venivano camminando in silenzio e piangendo; si muovevano con passi lenti come quelli che si fanno durante le processioni religiose. [1 – 9]
Non appena Dante guardò i corpi di quelli che camminavano, cioè spostò il suo sguardo dal loro viso al loro corpo, rimase incredibilmente stupito: infatti queste anime che procedevano avevano la testa girata, cioè il corpo di queste anime era girato tra il capo e il petto così che il loro volto era rivolto verso la schiena; i dannati erano quindi obbligati a camminare indietro perché non potevano guardare avanti.
Qui Dante fa una riflessione e dice che, forse a causa di una paralisi, è successo ancora che sulla terra qualcuno si sia trovato così, con la testa rivolta completamente indietro, ma, prosegue, dicendo ci non aver mai visto nulla di simile ed è convinto che sulla terra questo non sia mai accaduto. [10 – 18]
In questa terzina il poeta si rivolge a noi e dice: “Lettore, che Dio ti possa concedere di trarre un insegnamento dalla lettura di questo testo; ma adesso rifletti bene, secondo te avrei io potuto evitare di piangere dal momento che vidi da vicino l’immagine dell’uomo storpiata così tanto: infatti le lacrime che scendevano dagli occhi dei dannati andavano a bagnare le natiche dei dannati scendendo lungo il filo della schiena. [19 – 24]
Infatti anch’io piangevo appoggiato a una di quelle sporgenze della dura roccia quando Virgilio mi guardò e mi disse: “Ma piangi anche tu, come tutti quegli sciocchi? Vedi Dante, la pietà verso questi dannati è morta perchè non ci può essere una persona più ingiusta di quella che si permette di valutare giudizio di Dio ascoltando le proprie passioni. Alza la testa Dante e guarda bene il primo dannato; è Anfiarao l’indovino sotto il quale si aprì la terra sotto la vista dei tebani; questi gli gridavano: “Dove precipiti Anfiarao, perché abbandoni la guerra?”
Ma Anfiarao non smise di precipitare di abisso in abisso finché non raggiunse Minosse che prende chiunque. [28 – 36]
Anfiarao era stato re di Argo un guerriero un indovino che aveva previsto la sua stessa morte.
Dante osserva che ora Anfiarao ha le spalle al posto del petto perché da vivo ha voluto guardare troppo avanti nel futuro e adesso, in virtù della legge del contrappasso, guarda dietro di sé e cammina anche all’indietro [37 – 39]
Poi vedono Tiresia cbhe aveva cambiato il suo aspetto, da uomo era diventatao donna e poi, per riavere el sue sembianze aveva colpito con un bastone due serpenti che erano attorcigliati. Anche Tiresia era un famoso indovino. [40 – 45]
Il terzo indovino che incontrano è Arunte, un mago che dimorava in Lunigiana sopra la città di Carrara; Arunte si era fatto una grotta tra i marmi bianchi delle Alpi apuane da cui poteva guardare le stelle e poteva guardare anche il mare la vista delle stelle del mare non gli era impedita da niente [46 – 51]
Arriava quindi l’anima di una donna, l’indovina che copre il suo seno con le lunghe trecce sciolte che si chiamava Manto.
Questa donna aveva vagato per molte terre e si era fermata a Mantova nella terra dove Virgilio era nato.
Il poeta racconta allora la storia della fondazione della città.
Qui Virgilio racconta che dopo che Tiresia, il padre di Manto era morto la città di Tebe era caduta in schiavitù.
La bella Manto fu obbligata a vagare per lungo tempo nel mondo [52 – 60]
Qui Virglio ci fa una lezione di geografia e dice che nel Nord dell’Italia si trova un lago ai piedi delle Alpi che dividono la penisola italica dalla Germania il Benaco o Lago di Garda. Il lago è alimentato da mille e più fonti d’acqua. il lago si trova tra le aree di influenza del vescovo di Trento di quello di Verona e di quello di Brescia.
In fondo al lago, dove le colline moreniche arrivano alla pianura, sorge la città di Peschiera, una città bella e robusta con una fortezza solida in grado di tenere testa ai Bresciani e Bergamaschi. [61 – 72]
Da quel punto defluisce tutta l’acqua che non può essere contenuta nel lago di Garda, e quindi a Peschiera esce il Mincio, che scorre attraverso i verdi pascoli. il fiume mantiene questo nome fino a Governolo dove sfocia nel fiume Po. [73 – 78]
Il Mincio scorre per un tratto relativamente breve prima di incontrare un avvallamento un’area che si allaga e che diventa quindi una palude, con l’acqua stagnante che durante la stagione estiva può essere anche malsana.
Passando da quella palude la bella Manto vide in mezzo a tutto quel pantano, un pezzo di terra che non era coltivato e su quale non c’era traccia di abitante. E così, proprio per sfuggire ad ogni società umana, lì si fermò la bella Manto con il suo seguito di servi con l’intenzione di dedicarsi alla magia di restare in pace e rimase lì fino alla morte. [79 – 87]
In seguito altri uomini si raccolsero in quel luogo che era diventato una fortezza naturale proprio in virtù di tutto quel pantano che lo circondava. Proprio lì quindi venne edificata una città sopra le ossa della maga Manto e in onore a lei, che per prima aveva scelto quel luogo come sua dimora, quella città venne chiamata Mantova.
Virgilio poi racconta che gli abitanti di Mantova furono in passato molto più numerosi prima che la stoltezza del signore di Mantova, Alberto da Casalodi, si lasciasse ingannare da Pinamonte dei Bonacolsi.
Dante infatti racconta che Alberto da Casalodi si fosse fatto convincere da Pinamonte dei Bonacolsi ad esiliare gli esponenti di spicco di molte famiglie in vista della città di Mantova. E furono proprio questi provvedimenti ad attirare intorno al Conte Alberto molti nemici tanto che si ritrovò senza sostegno.
Ecco che qui Dante ritiene che proprio questo Pinamonte fosse particolarmente abile nell’inganno. [88 – 96]
Virgilio ha voluto raccontare la storia di Mantova e quindi conclude dicendo: “Mi auguro che se tu sentirai mai raccontare una storia diversa sull’origine della mia città tu non gli dia credito, nessuna menzogna potrà sostituire la verità che è questa che hai sentito da me.”
Dante rassicura il maestro e garantisce che i suoi ragionamenti sono così chiari che ottengono da lui tutta la fiducia che meritano; in confronto le parole di ogni altro non gli farebberio alcun effetto. [97 – 102]
Dante quindi chiede di sapere chi sianole anime che stanno arrivando, chiede se ci sia qualcuno degno di nota.
Allora Virgilio mostra l’anima di quel dannato dalle cui guance scende una barba lunga e scura fino alle spalle; egli fu Euripilo, un greco, un augure, un indovino; lui insieme con Calcante indicò il momento favorevole per far partire i re greci alla volta di Troia. Virgilio dice di aver scritto questo nella sua Eneide ed è sicuro che Dante se ne ricordi, perchè ha letto tutta la sua opera. [103 – 114]
Poi mostra l’anima di Michele Scotto, un astrologo e filosofo che era stato attivo nella corte di Federico II di Svevia. Secondo Dante costui aveva utilizzato la magia solo per ingannare.
Poi mostra Guido Bonatti, un astrologo di Forlì, molto famoso nel medioevo, esponente di spicco della parte ghibellina.
Quindi indica Asdente. Questo è il soprannome attribuito a di Mastro Benvenuto, un calzolaio di Parma calzolaio che era vissuto nella seconda metà del secolo XIII che, secondo Virgilio, nella vita avrebbe meglio a dedicarsi solo al cuoio e all’ago, avrebbe quindi dovuto attendere al mestiere di ciabattino, invece che dedicarsi alla magia e poi finire all’inferno; ma ovviamente ormai è troppo tardi per pentirsi. [115 – 120]
Poi indica delle donne infelici che hanno abbandonato l’ago, la spola e il fuso e si sono dedicate anch’esse a fare le indovine e hanno fatto mille magie. [121 – 123]
Ma Virgilio poi sollecita Dante, lo invita a procedere visto che ormai sono le sette del mattino e il loro viaggio deve continuare.
Fonti
- https://library.weschool.com/lezione/dante-alighieri-commedia-inferno
- https://parafrasidivinacommedia.jimdofree.com/inferno/
- https://www.orlandofurioso.com/divina-commedia/inferno/parafrasi-dellinferno
- http://www.parafrasando.it/dante/inferno
- https://it.wikisource.org/wiki/Divina_Commedia/Inferno