Giovanni Pascoli è stata una delle figure di riferimento della poesia italiana tra Ottocento e Novecento. Come docente universitario e autore di saggi, si è affermato nel mondo letterario, come poeta si è radicato nel cuore di generazioni di italiani. Infatti, per decenni, i libri di lettura erano scanditi dalle poesie del Pascoli, poesie che descrivevano il mondo contadino nello scorrere delle stagioni.
Giovanni Pascoli nacque nel 1855 a San Mauro di Romagna, quarto di dieci figli. Suo padre amministrava una tenuta agricola e Giovanni visse la sua infanzia in campagna, in una famiglia patriarcale e agiata.
A otto anni venne mandato in collegio a Urbino. Quando Giovanni Pascoli aveva 12 anni la sua vita venne sconvolta. Infatti il 10 agosto del 1867, mentre tornava a casa da una fiera, suo padre venne assassinato. Quel delitto rimase impunito e la famiglia sospettò sempre che l’assassino fosse proprio il fattore che aveva preso il posto del padre di Giovanni.
La morte di Ruggero Pascoli ebbe come prima conseguenza che la sua famiglia dovette lasciare la tenuta; ma le sventure erano solo iniziate. Infatti l’anno successivo morirono anche la madre e uno dei fratelli e negli anni successivi la stessa sorte toccò ad altri fratelli. Sopravvissero solo Giovanni Maria e Ida.
Nonostante queste tragedie, Giovanni riuscì a terminare il liceo e a iscriversi alla facoltà di lettere.
Il mondo universitario lo introdusse alla politica e Pascoli venne a contatto con i circoli socialisti. La giustizia sociale divenne il suo obiettivo. Partecipò quindi a comizi e manifestazioni che gli costarono prima la borsa di studio e poi anche un arresto. Finì in carcere e, quando uscì, qualche mese dopo, decise che avrebbe abbandonato la politica, e così fu.
Rientrato all’università, si laureò nel 1882.
Divenne insegnante di greco e latino, prima nel Sud Italia, poi pian piano si avvicinò alle sue terre. Ebbe addirittura l’onore di succedere a Giosuè Carducci, poeta famoso e docente di letteratura italiana, a Bologna.
Ma a Giovanni Pascoli la cattedra universitaria non bastava: infatti due erano le sue grandi passioni: la poesia e la natura. Quel mondo campagnolo dal quale era stato strappato violentemente, lo chiamava. Giovanni sognava, in tutto il suo girovagare tra licei e università, di ritornare nelle vallate romagnole, per vivere a contatto con la natura, nel succedersi delle stagioni e nelle azioni sempre uguali dei contadini.
E, appena gli fu possibile, affittò un casale a Castelvecchio di Barga, in provincia di Lucca. Lì andò a vivere assieme alle due sorelle: Ida e Maria.
Tutti e tre si sentivano soli e maltrattati dal mondo, ma insieme erano ancora una famiglia. Qualche tempo dopo però, Ida decise di sposarsi e Giovanni e Maria rimasero soli.
I manuali di letteratura spiegano che quei due fratelli, non essendo riusciti a farsi una vita, abbiano cercato di ricostruire assieme quel nido lacerato violentemente anni prima. I pettegolezzi raccontano invece un’altra storia: sembra che Maria abbia fatto di tutto per tener legato a sé il fratello, che lui abbia provato più volte a farsi una famiglia, ma che la sorella abbia allontanato tutte le possibili cognate con determinazione.
I maligni rincarano che è per questo che Pascoli alzava spesso il gomito, si consolava con i buoni vini che la sua tenuta produceva, una tenuta che nel tempo era riuscito ad acquistare.
Indipendentemente dalle opinioni, quello che sappiamo con certezza è che il “nido” è uno dei temi caratteristici della produzione poetica pascoliana; gli altri due argomenti che troviamo nella sua produzione poetica sono “morte” e “natura”.
Insieme o separati, questi tre elementi si possono individuare in quasi tutte le liriche del Pascoli.
E cosa intende per “nido”?
Il “nido” è un luogo sicuro, il luogo degli affetti più cari, il luogo dove ognuno può trovare pace e conforto, dove si è protetti dal male del mondo. Pascoli sente di aver bisogno di un porto sicuro nella vita, perché il male serpeggia e può travolgere all’improvviso: lui lo aveva sperimentato.
Il poeta ritiene però che, per trovare aiuto e conforto, non sia necessario che esista un legame di sangue tra le persone, basta che tra loro si crei un rapporto affettivo, basato sul desiderio comune di sostegno e di protezione.
Nella poesia “Orfano” troviamo un bambino che piange, una vecchia che lo culla e che gli canta una canzone, per farlo addormentare mentre fuori nevica.
Non sappiamo se i due protagonisti sono nonna e nipote, nel qual caso condividerebbero il lutto, perché l’autore non lo dice. Lui ci mostra solo un quadretto, come se fosse un dipinto impressionista: fuori, la neve che scende lenta, bianca e fredda, dentro la tenerezza affettuosa che scalda e consola, fuori il silenzio, dentro i suoni della vita: il dondolo di una culla, un pianto di bimbo, un canto di donna,.
In molte poesie Pascoli ci spiega che per fare famiglia, non è indispensabile la forma del legame quanto la sostanza degli affetti; questo fa la differenza. E una qualche forma di famiglia è necessaria per sopravvivere.
Il secondo tema che attraversa tutta lla sua poesia è quello della “morte”, del “male” che incombe, inesorabile, sull’umanità. Il male è ovunque e Pascoli ce lo mostra attraverso immagini diverse: il temporale estivo, il lampo e il tuono, raccontano il terribile potere della natura che, in un attimo può travolgere e distruggere tutto.
Ma la natura è anche il luogo della vita, con i suoi passeri che seguono il lavoro dei contadini e rubano le sementi, con le limpide giornate novembrine in cui il cielo terso profuma di primavera e sembra quasi di vedere i mandorli in fiore, con i fragranti gelsomini che si schiudono di notte.
Pascoli ha scritto poesie per ogni stagione, ha celebrato ogni festa, ha raccontato il lavoro dei contadini e delle lavandaie.
Il suo sguardo sulla vita è come quello di un bambino, un fanciullino che, con stupore, osserva le formichine per strada, che sa ridere nei momenti tristi e mitigare l’eccessiva allegrezza e che sa gioire delle piccole cose della vita.