Cisti fornaio
Video lettura novella Cisti fornaio
Durante il pontificato di papa Bonifacio VIII il papa mandò a Firenze alcuni suoi nobili ambasciatori per concludere degli affari. Siccome il papa stimava particolarmente messer Geri Spina, li inviò a casa sua.
Durate la loro permanenza in casa di messer Geri, quasi ogni mattina, mentre parlavano dei loro affari, tutti insieme passavano davanti alla chiesa di Santa Maria Ughi, dove Cisti fornaio aveva il suo forno e dove esercitava personalmente la sua arte.
Egli la esercitava così bene che, sebbene la fortuna gli avesse dato un’arte così umile, era comunque diventato ricchissimo e, non volendo abbandonare il suo mestiere per nessun altro, viveva splendidamente, anche grazie al fatto che aveva anche i migliori vini che si potevano trovare in Firenze e nel contado.
Cisti vedeva passare ogni mattina davanti alla sua porta messer Geri e gli ambasciatori del papa.
Poiché faceva molto caldo, Cisti pensò che sarebbe stata cosa molto cortese dar loro da bere un buon bicchiere del suo vino bianco.
Ma considerando quanto fosse umile la sua condizione rispetto a quella di messer Geri, non osò invitarlo. Pensò però di fare in modo che il gentiluomo si invitasse da sé stesso.
Geri aveva sempre indosso un gilè bianchissimo e un grembiule sempre fresco di bucato, che lo facevano sembrare più un mugnaio che un fornaio. Egli, ogni mattina, più o meno all’ora in cui erano soliti passare messer Geri e gli ambasciatori, si poneva davanti alla sua porta.
Si faceva portare lì un secchio nuovo, pieno di acqua fresca, una piccola brocca, realizzata a Bologna, piena di buon vino bianco e due bicchieri che parevano d’argento, tanto erano lucidi.
Dopo essersi messo a sedere, quando essi passavano, cominciava a bere il suo vino, con tanto gusto che avrebbe fatto venir voglia di bere anche ai morti.
Avendo messer Geri visto questa scena per due mattine di seguito, alla terza chiese al fornaio:
– Cosa state bevendo? È buono?
Cisti si alzò immediatamente in piedi e rispose:
– Messere è buonissimo, ma non vi posso far capire quanto è buono, se voi non lo assaggiate.
Messer Geri, che aveva una gran sete, per la calura e per il desiderio di assaggiare il vino che Cisti beveva con tanto gusto, si rivolse agli ambasciatori e disse:
– Signori, è bene che noi assaggiamo il vino che ci offre questo uomo di valore, questo vino dev’essere così buono che noi non ci pentiremo di averlo assaggiato.
Assieme agli ambasciatori messer Geri andò verso Cisti.
Egli, fatta portare fuori dal forno una bella panca, li pregò che si sedessero.
Poi disse ai suoi servitori che si erano avvicinati:
– Tiratevi indietro e lasciate che sia io a servire questi ospiti. Infatti io so mescere il vino non meno bene di quanto io sappia fare il pane! E non pensate di assaggiare di questo vino prelibato! —
Così detto, dopo aver lavato egli stesso quattro bicchieri, si fece portare una piccola brocca di buon vino e lo versò da bere a messer Geri e ai compagni.
A tutta la compagnia il vino sembrò il migliore di quello che avevano bevuto da lungo tempo e, finché gli ambasciatori si trattennero in Firenze, ogni mattina messer Geri andò a berlo, insieme a loro.
Quando gli ambasciatori ebbero concluso i loro affari, prima che partissero, messer Geri fece un magnifico banchetto al quale invitò tutti i cittadini più onorevoli di Firenze e a cui invitò anche Cisti. Ma lui non volle assolutamente andarci.
Messer Geri ordinò, allora, ad un suo servo di andare da Cisti con un fiasco, per farsi dare un po’ di quel vino, per poter servire mezzo bicchiere ad ogni convitato, prima del pranzo.
Il servitore, forse sdegnato perché nei giorni precedenti non aveva potuto assaggiare il vino, prese un fiasco molto grande.
Appena Cisti lo vide disse:
– Figliolo, sicuramente messer Geri non ti manda da me.
Più volte il servitore ribadì che era stato inviato proprio da messer Geri, ma non ricevette da Cisti altra risposta.
A quel punto il servitore tornò da messer Geri e riferì quanto aveva detto il fornaio.
Sentita la risposta messer Geri inviò di nuovo il servitore da Cisti e disse:
– Torna da lui e se egli ti risponde ancora così, chiedigli a chi io ti sto mandando.
Il servitore tornò dal fornaio e disse:
– Cisti, è certo che messer Geri mi ha mandato da te.
Cisti guardò il servitore e rispose:
– Sicuramente messer Geri non ti manda da me.
– Dunque? rispose il servitore – a chi mi manda?
Rispose Cisti:
– Messer Geri Spina ti manda all’Arno.
Quando il servitore ebbe riportato la risposta al suo padrone, a messer Geri si aprirono gli occhi dell’intelletto, capì e disse al servitore:
– Lasciami vedere che fiasco tu hai portato con te!
E dopo aver visto il fiasco disse:
– Ah Cisti dice il vero! Quello non è un fiasco per il buon vino!
Messer Geri quindi prima sgridò il servitore imbroglione, poi lo inviò nuovamente da Cisti, dopo aver controllato che portasse con sé un fiasco adeguato.
Quando Cisti vide il fiasco disse:
– Ah, adesso sono certo che il tuo padrone ti volesse mandare proprio da me!
E glielo riempì con gioia.
Poi, lo stesso giorno, fece riempire una botte dello stesso vino e la inviò a casa di messer Geri. Quindi lo andò a trovare e gli disse:
– Messere, Io non vorrei che voi credeste che il grande fiasco di stamattina mi abbia spaventato. Ma mi era sembrato che vi foste dimenticato che questo non è un vino da tutti i giorni, un vino comune. Ho rifiutato di riempivi quel grande fiasco per questo. Ma io sono onorato di potervi donare il mio vino, quindi ve l’ho fatto imbottigliare tutto. Fatene quello che vi piace.
Messer Geri ricevette con grande piacere questo dono da parte di Cisti, lo ringraziò moltissimo e da quel momento Messer Geri considerò sempre il fornaio Cisti come suo amico.
Frate Cipolla
A Certaldo c’era il castello di Valdelsa, nella campagna fiorentina, che, sebbene piccolo, fu abitato da uomini nobili e ricchi.
Poiché da quel castello si ricavavano buone offerte, uno dei frati di Sant’Antonio, vi si recava, una volta all’anno, per raccogliere le elemosine fatte dagli ingenui abitanti.
Il nome di questo frate era frate Cipolla, perché in quel terreno produceva cipolle famose in tutta la Toscana.
Frate Cipolla era piccolo di persona, con i capelli rossi, sorridente, era il miglior brigante del mondo.
Oltretutto, pur essendo ignorante, era un grande e arguto parlatore, tanto che chi l’avesse conosciuto avrebbe pensato che fosse Cicerone stesso o Quintiliano.
Era compare di quasi tutti gli abitanti della contrada.
Secondo la sua abitudine, nel mese di agosto, il frate andò a Certaldo una domenica mattina, quando tutti gli uomini e le donne del circondario si erano recati nella canonica a sentir messa.
Quando gli sembrò opportuno, si fece avanti e ricordò ai parrocchiani che era loro usanza ogni anno mandare ai poveri di Sant’Antonio offerte di grano e di biade, chi poco e chi molto, secondo la grandezza della proprietà e della devozione; offrivano tanto perché Sant’Antonio custodisse i buoi, gli asini, i porci e le pecore di questi contadini.
Oltre a ciò, ricordò che essi pagavano, una volta all’anno, una piccola somma in denaro, soprattutto gli iscritti alla Compagnia di Sant’Antonio.
Egli era stato incaricato dall’Abate della riscossione di tali contributi.
Per questo, intorno alle tre del pomeriggio, quando avessero sentito suonare le campane, tutti sarebbero usciti nella strada dove, come al solito, egli avrebbe fatto una predica e avrebbe fatto baciare loro la Croce.
Inoltre, poiché sapeva che erano devotissimi di Sant’Antonio, per concessione speciale, avrebbe mostrato loro una santissima reliquia, che aveva portato con sé dall’Oriente.
La reliquia era una delle penne dell’Angelo Gabriele, che era rimasta nella camera di Maria Vergine, quando l’angelo era andato a Nazareth per l’Annunciazione.
Detto ciò il frate tacque e ritornò a celebrare la Messa.
Quando frate Cipolla diceva queste cose vi erano in chiesa, insieme agli altri, due giovani molto astuti, l’uno chiamato Giovanni del Bragoniera e l’altro Biagio Pizzini.
Essi, dopo aver riso un po’ della storia della reliquia, sebbene fossero suoi amici, decisero di fargli un brutto scherzo.
Avendo saputo che il frate la mattina pranzava al castello con un suo amico, non appena sentirono che egli era a tavola, scesero in strada ed andarono all’albergo dove il frate era alloggiato.
Biagio doveva intrattenere il servitore di frate Cipolla, mentre Giovanni doveva cercare tra le cose del frate la famosa penna e sottrargliela; volevano vedere che cosa poi egli avrebbe detto al popolo.
Frate Cipolla aveva un servo, da alcuni chiamato Guccio Balena, da altri Guccio Imbratta e da altri ancora Guccio Porco, che era così stupido che nemmeno Lippo Topo, che era così stupido, ne aveva combinate tante.
Spesso frate Cipolla, con la sua brigata, lo prendeva in giro dicendo che quel suo servo aveva in sé nove cose, che se una sola di esse l’avesse avuta Salomone o Aristotele o Seneca, avrebbe guastato ogni loro virtù, ogni loro giudizio, ogni loro moralità.
Avendogli più volte domandato quali fossero queste nove cose, messele in rima, rispondeva:
“Egli è lento, sporco e bugiardo;
negligente, disobbediente e maldicente;
trascurato, smemorato e scostumato.
Inoltre ha altri piccoli difettucci che è meglio tacere.
Infine c’è una cosa che fa ridere ancora di più: lui vuole, a tutti i costi, prender moglie e prender casa con lei.
Poiché ha una barba grande, nera e unta, si sente tanto bello e gradevole tanto che pensa che tutte le donne che lo vedono, si innamorino di lui. Se poi lui viene lasciato, lui corre loro dietro a tutte, perdendo anche la cintura.
In verità però lui mi è di grande aiuto perché, se c’è qualcuno che mi vuol parlare in segreto, egli vuol sentire tutto.
Se sono interrogato su qualche cosa, ha tanta paura che io non sappia rispondere, che subito risponde lui, come gli sembra più opportuno”.
Il frate aveva lasciato il servo in albergo e gli aveva raccomandato di controllare che nessuno toccasse le sue cose, soprattutto, le bisacce, dove erano le cose sacre.
Ma Guccio Imbratta desiderava stare in cucina più che l’usignolo sui verdi rami, specialmente se c’era una serva.
Nella cucina dell’oste ne aveva vista una grossa, piccola e sgraziata, con un paio di poppe che parevano due cestoni per il letame, con un viso bruttissimo come quelli dei Baronci, tutta sudata e unta, che puzzava di fumo.
Subito, come un avvoltoio che si getta su una carogna, il servo aveva lasciato aperta la camera di frate Cipolla, e senza preoccuparsi per le sue cose abbandonate, aveva inseguito la serva.
Quindi, sebbene fosse agosto, si era seduto accanto al fuoco e aveva cominciato a chiacchierare con quella, che si chiamava Nuta.
Le disse che era un gentiluomo, che aveva un sacco di fiorini, esclusi quelli che aveva prestato, che erano più o meno tanti, e che sapeva fare e dire tante cose, quante il suo padrone.
Non tenne conto del suo cappuccio, che era così unto che avrebbe potuto condire il pentolone della minestra d’Altopascio, del suo giubbetto rotto e rappezzato intorno al collo e sotto le ascelle, tutto sporco con più macchie e più colori delle stoffe tartare e turche, delle scarpette tutte rotte, delle calze bucate.
E continuò dicendo, come se fosse stato il re di Castiglione, che voleva rivestirla, rimetterla in forma e toglierla da quella sventura di stare a servire presso altri, senza alcuna ricchezza.
Voleva, infine, darle la speranza di una vita più fortunata e tante altre cose.
Tutto ciò, sebbene fosse stato detto con grande affetto, si trasformava in niente, come se fosse stato vento.
I due giovani, dunque, trovarono Guccio Porco occupato a far la corte a Nuta.
Contenti di ciò, perché si erano risparmiati metà della fatica, senza nessuna difficoltà entrarono nella camera di frate Cipolla, che era aperta.
Per prima cosa cercarono la bisaccia, in cui era la penna; apertala, trovarono una piccola cassettina avvolta in un gran telo di seta.
Nella cassettina trovarono una penna come quelle della coda di un pappagallo, che ritennero fosse quella che il frate aveva promesso di mostrare ai certaldesi.
Certamente egli poteva farlo credere perché le raffinatezze d’Egitto erano, allora, poco conosciute in Toscana, mentre, in seguito, sarebbero arrivate in grande abbondanza, corrompendo tutto.
E se erano poco conosciute nel resto dell’Italia, gli abitanti di quella contrada, che erano di antica razza onesta, non le conoscevano per niente e non avevano mai visti i pappagalli e non ne avevano neppure sentito parlare.
Tutti contenti i due giovani presero la penna e, per non lasciare la cassetta vuota, la riempirono con dei carboni, che avevano trovato in un angolo della camera.
Chiusero quindi la cassetta e sistemarono ogni cosa come l’avevano trovata, senza essere visti.
Poi se ne ritornarono indietro con la penna rubata e cominciarono ad aspettare ciò che il frate avrebbe detto, trovando i carboni al posto della penna.
Gli uomini e le donne di umili origini che erano in chiesa, dopo aver udito che verso le tre del pomeriggio, avrebbero visto la penna dell’angelo Gabriele, finita la messa se ne tornarono a casa.
Ognuno lo disse al suo vicino, una comare all’altra e così appena ebbero finito di pranzare, un gran numero di uomini e di femmine accorse al castello, tanti che a stento riuscirono ad entrare, tutti in attesa ansiosa di vedere la penna.
Frate Cipolla, dopo aver mangiato a sazietà e dopo aver dormito un po’, alzatosi poco dopo le tre e avendo sentito che era venuta una moltitudine di contadini col desiderio di vedere la penna, mandò a dire a Guccio Imbratta di portare su le campanelle e le bisacce.
Guccio intanto, strappato di mala voglia dalla cucina e dalla Nuta, faticosamente salì a portare le cose richieste.
Giunto sulla collina, ansimando perché il bere troppa acqua lo aveva fatto ingrassare, arrivato sulla porta della chiesa, su ordine del frate, cominciò a suonare con forza le campane.
Non appena tutto il popolo fu radunato, frate Cipolla cominciò la predica senza accorgersi che le sue cose erano state spostate. Lui iniziò a parlare avendo ben chiaro l’obiettivo della sua predica.
Dovendo mostrare la penna dell’angelo Gabriele, egli fece prima la confessione con grande solennità. Poi fece accendere due grosse candele e con delicatezza, aprendo il telo, dopo essersi tolto il cappuccio, ne tirò fuori la cassetta.
Disse prima alcune parole in lode dell’Angelo, aprì la cassetta.
Non appena vide che era piena di carboni, non sospettò che quella cosa fosse opera di Guccio Balena, perché sapeva che non era capace di tanto, ma non lo maledisse neppure perché non aveva controllato che altri non lo facessero.
Se la prese, quindi tacitamente, con sé stesso perché lo aveva messo a guardia delle sue cose, ben sapendo che era negligente, disobbediente, trascurato e smemorato.
Quindi, senza cambiare colore, alzate le mani, disse a voce alta per essere udito da tutti:
“O Iddio, sia sempre lodata la tua potenza”.
Poi, richiusa la cassetta, si rivolse al popolo dicendo:
“Signori e donne, dovete sapere che quando io ero ancora giovane, fui mandato dal mio superiore in Oriente, per cercarvi oggetti particolari che, anche se non costano niente, sono più utili agli altri che a noi.
Mi misi in cammino, partendo da Vinegia, poi, cavalcando per il reame del Garbo e per Baldacca, giunsi in Parione da dove, dopo un certo tempo, arrivai nella località di Sardigna.
Ma perché vi sto indicando tutti i paesi che visitai?
Giunsi, dopo aver passato il Braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia, paesi molto popolosi, e di lì nella terra di Menzogna, dove trovai molti nostri frati ed altri, i quali tutti per amor di Dio, sfuggendo la povertà, inseguivano la loro utilità, poco curandosi delle fatiche altrui, spendendo niente altro che parole.
Poi passai in Abruzzo, dove gli uomini e le femmine vanno con gli zoccoli su per i monti, facendo le salsicce con le loro stesse budella.
Poco oltre trovai genti che portavano il pane sui bastoni e il vino negli otri.
Di lì giunsi alle montagne dei bachi, dove le acque scorrono all’ingiù.
E, in breve, tanto camminai che arrivai in India Pastinaca, là dove, vi giuro sull’abito che porto indosso, vidi volare i pennuti, cosa incredibile.
Infine trovai quel buffone di Maso del Saggio, gran mercante, che schiacciava noci e vendeva gusci.
Non avendo trovato quello che cercavo, poiché bisognava proseguire per mare, tornai indietro e arrivai in quelle terre sante, dove d’estate il pane freddo costa quattro denari e il caldo non costa niente.
Qui incontrai il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace, degno patriarca di Gerusalemme.
Egli, per rispetto all’abito di Sant’Antonio, che io ho sempre portato, volle che vedessi tutte le sante reliquie che aveva con sé; erano veramente tante che non ve le potrei assolutamente descrivere tutte.
Solo per rallegrarvi, ve ne citerò alcune.
Dapprima mi mostrò il dito dello Spirito Santo, poi il ciuffetto del Serafino che apparve a San Francesco, poi una delle unghie dei cherubini, una delle costole del “Verbum” e una delle vesti della Santa Fede Cattolica.
E, ancora, mi fece vedere alcuni raggi della stella cometa che apparve ai tre Magi in Oriente e un’ampolla del sudore di San Michele, quando combatté col diavolo, e la mascella della Morte di San Lazzaro e molte altre.
Per questo io gli copiai alcuni passi di Monte Morello in volgare e alcuni capitoli del Crapezio, che aveva a lungo cercato.
Poi mi donò uno dei denti del Crocifisso e, in una piccola ampolla, il suono delle campane del tempio di Salomone e la penna dell’angelo Gabriele, della quale vi ho già parlato, e anche uno degli zoccoli di san Gherardo di Villamagna, reliquia che ho donato poco tempo fa a Gherardo di Bonsi.
Infine questi mi diede alcuni carboni con i quali fu arso il beatissimo martire San Lorenzo.
Ho conservato devotamente tutte queste cose e le ho ancora tutte.
Ma mio superiore non ha voluto che ve le mostrassi fino a che non fosse stato certificato che erano autentiche.
Ora, per certi miracoli che esse hanno fatto e per certe lettere ricevute dal Patriarca, il mio superiore è sicuro della loro autenticità, perciò ha acconsentito che ve le mostri.
E io le porto sempre con me, temendo di affidarle ad altri.
In verità porto sempre con me la penna dell’angelo Gabriele, perché non si guasti, in una cassetta, e i carboni con i quali fu arrostito San Lorenzo in un’altra.
Le due cassette si assomigliano molto, per cui spesso viene presa l’una per l’altra, come è avvenuto ora.
E infatti, credendo di aver preso la cassetta dov’era la penna, ho portato quella dov’erano i carboni.
Ma adesso io sono certo che non si tratti di un errore, ma della volontà di Dio.
Dio, infatti, pose nelle mie mani la cassetta con i carboni; io mi rendo conto solo adesso, che fra soli due giorni ci sarà la festa di San Lorenzo.
Dio vuole che io, mostrandovi i carboni con i quali il Santo fu arrostito, riaccenda in voi la devozione per San Lorenzo.
Per questo mi fece prendere, non la penna come volevo, ma i benedetti carboni spenti dal sangue del Santo.
Per questo, figliuoli benedetti, toglietevi i cappucci e avvicinatevi qui per vederli devotamente.
Ma voglio che sappiate che chiunque sarà toccato da questi carboni con il segno della croce può vivere sicuro che per tutto quest’anno non sarà bruciato dal fuoco, senza che se ne accorga”.
Dopo aver detto ciò, cantando una laude di San Lorenzo, aprì la cassetta e mostrò i carboni.
La folla dei fedeli, credulona, dopo averli visti, si accalcò tutta intorno a frate Cipolla, dando molte più offerte del solito, pregando che il frate li segnasse tutti.
Frate Cipolla, presi in mano i carboni, sopra i camicioni bianchi dei contadini, sopra i corpetti e sopra i veli delle donne cominciò a fare grandi croci, dicendo che sebbene i carboni si consumavano nel fare le croci, poi ricrescevano nella cassetta, così come egli aveva molte volte constatato.
In tal modo segnò con la croce tutti i certaldesi, con suo grandissimo vantaggio.
Con questo accorgimento fece rimanere beffati coloro che, togliendogli la penna, avevano creduto di beffare lui.
I due briganti, che erano stati presenti alla predica e avevano udito la soluzione da lui trovata e quanto da lontano era partito con le parole, si erano sganasciati dalle risate.
Dopo che il popolo si fu allontanato, andarono da lui, gli raccontarono, con grande allegria, ciò che avevano fatto e gli restituirono la sua penna, che egli utilizzò l’anno successivo con lo stesso profitto che, in quel giorno, gli avevano procurato i carboni.
Chichibio cuoco
Testo parafrasato e semplificato – Video della novella Chichibio cuoco
La novella è tratta dalla sesta giornata in cui si raccontano situazioni spinose che si sono risolte grazie a una battuta di spirito. Il protagonista di questa novella è il cuoco di Currado Gianfigliazzi, Chichibio in quale, per compiacere una donna che gli piaceva, si era messo in una situazione davvero pericolosa!
Neifile, la narratrice di questa novella, esordì dicendo che a volte l’ingegno pronto offriva parole belle e utili a chi parlava, e altre volte la fortuna, aiutava i paurosi e offriva loro parole che essi non avrebbero mai potuto trovare in situazioni tranquille. Voleva dimostrare questo con la sua novella.
Currado Gianfigliazzi era stato un cittadino importante di Firenze, generoso e nobile, che si dilettava a fare vita cavalleresca e andava continuamente a caccia con i suoi cani, trascurando altri suoi impegni.
Un giorno egli, con un suo falcone, aveva ammazzato una gru, presso Peretola. Visto che la gru era bella grassa e giovane, la mandò al suo cuoco veneziano, che si chiamava Chichibio, dicendogli che la arrostisse ben bene per la cena. Chichibio, cuoco abile ma che sembrava un sempliciotto, preparò la gru, la mise sul fuoco e, prontamente, la cominciò a cuocere.
Quando la gru fu quasi cotta e mandava un ottimo profumo, una fanciulla della zona, di nome Brunetta, di cui Chichibio era molto innamorato, entrò in cucina. Sentendo l’odore della gru e vedendola, pregò dolcemente e insistentemente Chichibio di dargliene una coscia.
Chichibio le rispose, cantando e disse:
“Voi non l’avrete da me, Brunetta, voi non l’avrete da me”.
A quel punto donna Brunetta, molto turbata, gli rispose:
“In fede di Dio, se tu non mi dai una coscia della gru, io non datò mai a te quello che tu vorresti da me’’.
Queste parole di Brunetta mossero … l’animo di Chichibio, il quale per non indispettire la sua donna, staccò una coscia alla gru e la diede a Brunetta. Quindi Chichibio servì, a cena, a Currado e al suo ospite, la gru, senza una coscia. Currado, meravigliatosi di ciò, fece chiamare il cuoco e gli domandò dove fosse finita l’altra coscia della gru. Il veneziano, bugiardo, rispose scaltramente:
“Signor mio, le gru hanno solo una coscia ed una gamba».
Currado allora, alterato, disse:
“Cosa diavolo vuol dire che le gru hanno solo una coscia e una gamba? Ti pare che io non abbia mai visto altre gru oltre a questa?’’
Ma Chichibio continuò:
“Vi garantisco signore che la verità è questa. E quando vorrete vi mostrerò che quello che sto dicendo è vero”.
Currado, per rispetto dell’amico che era a tavola con lui, non volle continuare la discussione, ma disse:
“Poiché tu dici che puoi dimostrare quello che dici nella realtà, dal momento che io non ho mai né visto né udito quello che tu stai dicendo, io voglio aver la prova già domattina. Così sarò contento. Ma ti giuro, sul corpo di Cristo che, se le cose non stanno come tu dici, io ti farò conciare in maniera, che te lo ricorderai per lungo tempo. Ti ricorderai di me per tutta la vita.”
Quella sera il discorso venne quindi interrotto. La mattina seguente al sorgere del sole, Currado si alzò. Nonostante avesse dormito, l’ira causata dal comportamento di Chichibio non era cessata. Pertanto si alzò e comandò che i cavalli gli fossero preparati. Fece salire il cuoco sopra un ronzino e insieme si diressero verso il fiume sulla riva del quale solitamente al mattino si vedevano le gru. Mentre camminava Currado disse a Chichibio:
“Adesso vedremo chi ha mentito ieri sera: se io o tu!”
Chichibio, vedendo che la rabbia di Currado durava ancora e che gli conveniva dimostrare di aver detto la verità, ma non sapendo come fare, cavalcava vicino a Currado con gran paura. Se avesse potuto sarebbe fuggito. Ma non potendo fuggire guardava ora davanti, ora indietro, ora di lato: e quello che gli sembrava di vedere erano tutte gru su due piedi.
Ma quando furono arrivati vicino al fiume, prima che le ebbe viste Currado, Chichibio vide dodici gru, le quali stavano tutte su di una gamba.
È così che sono solite fare le gru quando dormono. Per questo egli, mostrandole rapidamente a Currado disse:
«Potete ben vedere messere, potete ben vedere che ieri sera vi ho detto il vero. Infatti le gru hanno solo una coscia e un piede. Potete vedere benissimo come stanno quelle là.”
Currado, vedendole disse:
“Aspetta un attimo che ti mostro se di gambe ne hanno due”.
E avvicinatosi a quelle gridò: “Ho ho!”
Al sentire quel grido le gru, dopo aver messo l’altro piede in giù, fecero tutte qualche passo ei cominciarono a fuggire.
Currado dunque si rivolse a Chichibio e disse:
“Che ne dici furbacchione? Ti pare che esse abbiano due gambe?”
E Chichibio, mostrandosi quasi sbigottito, non sapendo egli da dove venisse l’idea rispose:
«Ma messere sì, avete ragione; ma voi ieri sera non gridaste Ho ho! a quella gru. Se voi aveste gridato così ella avrebbe mandato fuori l’altro piede, come hanno fatto queste».
Currado rimase incredibilmente stupido da questa risposta, gli piacque così tanto che la sua rabbia si trasformò in una sonora risata.
“Hai ragione tu” disse “Chichibio hai proprio ragione, avrei dovuto farlo!!
Ed ecco dunque che con la sua pronta e gioiosa risposta la sventura di Chichibio svanì e lui fece pace col suo signore.