Donne e lavoro
Svanite le speranze di una rapida vittoria, anche in Italia la guerra comportò una temporanea rivoluzione nei ruoli e nei comportamenti femminili.
Numerosi lavori e diverse attività, che in tempo di pace erano svolti dai maschi, ora chiamati sotto le armi, per tutta la durata del conflitto videro impiegate numerosissime donne. In campagna, prima di tutto, esse svolsero un lavoro imponente, spesso dimenticato e sottovalutato; se la produzione di grano, tra il 1915 e il 1918, non scese mai al di sotto del 90% del totale prebellico, si deve al durissimo lavoro femminile nei campi, condotto senza il sostegno dei mariti o dei figli.
È vero che, nelle campagne, più o meno sommerso il lavoro femminile era sempre stato importantissimo; si trattava però, in genere, di un lavoro di sostegno e di supporto alla fatica maschile; dal 1915 al 1918, invece, il peso delle attività agricole gravò interamente sulle spalle delle donne e degli anziani.
Anche in Italia, la guerra diede un improvviso impulso al lavoro operaio femminile, concentrato nelle città. Nel 1918, le donne costituivano il 25% della manodopera negli stabilimenti ausiliari (nati cioè in tempo di guerra, per sostenere la produzione bellica) di Torino, il 31% in quelli di Milano, l’11% in quelli di Genova. Nel complesso, a livello nazionale, nella produzione industriale alla fine della guerra erano impegnate circa 200 mila donne.
Scriveva la giornalista Paola Baronchelli Grosson, in un opuscolo di propaganda: «Soltanto due anni addietro un ingegnere, un capo tecnico avrebbe riso come di una stramberia all’idea di mettere una donna al tornio… cioè al congegno tradizionalmente di competenza mascolina. E invece oggi esse eseguono gran parte delle lavorazioni per la produzione del materiale da guerra». |
Al di là dell’industria bellica, le donne trovarono poi occupazione anche come spazzine, postine, tramviere…
Queste occupazioni destarono particolare scandalo, perché all’epoca erano svolte in divisa: agli occhi dei conservatori e dei tradizionalisti, il mondo sembrava essere capovolto.
Per rassicurare il mondo maschile, la propaganda del periodo di guerra mise allora l’accento soprattutto sulla figura materna dell’infermiera, angelo dell’ospedale, in uno slogan del tempo:
«L’infermiera si occupa del ferito dopo che il medico ha curato la ferita».
Nel 1917, le infermiere in servizio erano circa 20 000; per lo più, si trattava di giovani volontarie di famiglia medio-alta o borghese, scelte proprio perché di ceto superiore ai soldati di cui dovevano prendersi cura.
Questa superiorità sociale doveva incutere rispetto ai soldati feriti e cancellare in loro ogni proposito di avventura amorosa con le crocerossine, alle quali, non a caso, era vietato occuparsi degli ufficiali, che in genere erano di ceto pari al loro.
Nelle lettere inviate ai familiari dalle donne impegnate come infermiere, si mescolano due tipi di sentimento. All’inizio, prevalgono la fierezza di sé, l’orgoglio e la soddisfazione legata alla nuova situazione di indipendenza, a contatto con l’universo maschile (medici, chirurghi, soldati feriti).
Con il passar del tempo, anche in molte di loro subentrano però la depressione e la disperazione, dovute al continuo contatto con il dolore e la sofferenza.
Prostitute e soldati
Nel 1916, per iniziativa di alcuni cappellani militari, fu approntato per le truppe un primo sistema di strutture che, nelle retrovie, offrissero distrazione e intrattenimento ai soldati che, temporaneamente, erano stati allontanati dalle trincee.
Queste Case del Soldato al fronte seguivano un modello già collaudato dagli inglesi e dai francesi in Francia, ma di fatto recuperavano anche l’esperienza delle sagre parrocchiali e delle feste di paese; ai giovani impegnati in guerra erano offerte rappresentazioni teatrali e cinematografiche, conferenze, spettacoli e altri diversivi.
Fino a quel momento, ai soldati, le autorità militari italiane non avevano offerto altro che una capillare rete di postriboli, i cosiddetti casini di guerra o casini militari.
Le prime esperienze di questo tipo erano state avviate nel 1885 in Africa, più precisamente in Eritrea, dove i vincoli della rispettabilità borghese e della morale cattolica, rigidissimi in patria, erano stati ben presto abbandonati.
Tra gli ufficiali divenne prassi normale dotarsi di un’amante nera, denominata “madama”.
I soldati semplici, invece, a volte agivano in modo violento nei confronti delle donne indigene – il che, ovviamente, provocava reazioni furiose da parte delle famiglie delle ragazze offese – oppure frequentavano prostitute miserabili e poverissime, con gravi rischi di contrarre malattie veneree.
I postriboli militari nacquero con questa doppia finalità: prevenire la diffusione della sifilide e limitare i problemi di ordine pubblico.
Soddisfatto dei risultati ottenuti nelle guerre coloniali, il Comando italiano si affrettò a istituire i casini di guerra fin dall’estate del 1915.
Le fonti che permettono di ricostruire questa singolare pagina della Grande Guerra sono varie e di diversa natura. In primo luogo, troviamo numerosi accenni al fenomeno nei rapporti delle prefetture.
Le case di tolleranza, infatti, erano per lo più situate in territorio italiano, e quindi spettava ai prefetti controllare con apposite ispezioni a sorpresa che le strutture rispettassero le più elementari norme di igiene e, soprattutto, che le donne non fossero infette da malattie celtiche, cioè da sifilide o altre malattie veneree.
Sempre alle prefetture spettava poi la repressione della cosiddetta prostituzione girovaga, praticata comunque da donne povere, che cercavano di alleviare la propria miseria vendendosi ai soldati.
Punito e ridotto alla clandestinità, il fenomeno era temuto non solo per ragioni sanitarie, ma anche perché si temeva che la prostituta potesse essere al soldo degli austriaci, e quindi carpire segreti militari più o meno importanti a soldati che, fino a pochi giorni prima, erano stati in trincea.
Un’altra fonte importante che ci offre numerose informazioni sui casini di guerra sono le numerose lamentele dei vescovi o dei sacerdoti, quando i postriboli venivano istituiti in una località della loro diocesi o della loro parrocchia.
Le proteste che essi rivolgevano ad autorità civili e militari, però, di solito restavano lettera morta: i casini erano considerati uno strumento indispensabile per l’equilibrio psico-fisico dei soldati sottoposti al durissimo stress della trincea.
Non è possibile fornire dati precisi sul numero delle donne impiegate nei postriboli militari. Di sicuro, si trattava di prostitute che esercitavano tale attività già prima della guerra, oppure di giovani di bassa estrazione sociale.
Con un’espressione molto efficace, un ufficiale medico italiano definì quei luoghi «campi di concentramento della lussuria».
Senza contare i rischi di contagio o altri pericoli, le donne erano sottoposte a ritmi di lavoro durissimi.
Nelle memorie di guerra, il ricordo del casino non ha in genere nulla di romantico; in fila, si attende il proprio turno, cercando di vincere l’imbarazzo, prima di consumare l’atto in pochi istanti, senza amore e senza preliminari.
Come la produzione di armi e la morte, anche l’esercizio della sessualità assunse, per i soldati italiani al fronte, una dimensione industriale: divenne un’attività da esercitare in serie, in una specie di catena di montaggio in cui l’anello più debole, la prostituta, era considerata un ingranaggio intercambiabile, oggetto di volgare disprezzo, di condanna sociale pubblica e di emarginazione.
I postriboli per militari
Negli anni 1915-1918, il Comando italiano istituì una capillare rete di case di tolleranza, destinate ai soldati temporaneamente spostati dal fronte alle retrovie.
Per conoscere tale complesso fenomeno, una fonte di primaria importanza è data dalle lettere di protesta degli ecclesiastici, che denunciavano i pericoli per la moralità nazionale provocati dalla diffusione di tali strutture.
Quando le autorità rispondevano, sostenevano che si trattava di una provvisoria alterazione delle regole ordinarie, un’inevitabile necessità, provocata dalla guerra, e che comunque – sotto il profilo morale e quello sanitario – la prostituzione esercitata all’interno di strutture sorvegliate era preferibile a quella libera.
Tornando al problema delle case di tolleranza propriamente militari, c’è da osservare come non ne sia facile una puntuale descrizione che ci ragguagli sulla loro consistenza, sulla loro dislocazione e su alcuni aspetti specifici del loro funzionamento, compresi quelli legati ai frequentatori reali e alle donne che vi si trovavano rinchiuse.
Intesi come pronto rimedio in zone impervie o male attrezzate, di solito nella immediata retrovia, i bordelli militari all’atto della loro istituzione nel 1915 e via via più tardi, riflettevano infatti l’andamento delle vicende belliche con un’alternanza ben immaginabile di aperture, di chiusure e di spostamenti.
In virtù degli accordi intercorsi fra autorità civili e militari che in accordo con tenutari e impresari privati presiedevano alla loro attivazione di volta in volta, se ne trova traccia nei documenti più svariati.
Essi sostituiscono quelli, al momento per noi non consultabili, conservati con ogni probabilità negli archivi dell’esercito.
Talvolta sono le comunicazioni di un Prefetto, talaltra una lettera di protesta o, appunto, le scarne testimonianze dei protagonisti a offrirci un’idea del turn over assai elevato che contraddistinse la diffusione di questi atipici stabilimenti.
Da una lettera della prefettura di Udine al ministero degli Interni, datata 13 novembre 1916 «D’ordine dell’Autorità Militare, sono state aperte in Provincia nuove case di meretricio, delle quali due a S. Giorgio di Nogaro ed una a Latisana. Questa Prefettura sta provvedendo perché detti locali rispondano sufficientemente alle norme dell’igiene e ha incaricato delle visite periodiche alle prostitute ivi soggiornanti (non meno di tre visite alla settimana) l’Ufficiale sanitario di ciascun comune. Sono in corso pratiche coll’Intendenza della III Armata, Direzione di Sanità per la nomina di un medico militare specialista per le visite di controllo. Inoltre sono già state date disposizioni perché le prostitute riscontrate infette da malattie celtiche [veneree, prima fra tutte la sifilide, n.d.r.], siano, a mezzo foglio di via e con accompagnamento dei R.R. Carabinieri, internate nella Sala Celtica di Palmanova». |
Da simili testimonianze si desume l’integrazione, almeno iniziale, delle misure tradizionali di controllo affidate agli apparati civili dei medici e dei fiduciari comunali con quelle inedite della Sanità militare, un fatto che comportava, stando alle istruzioni e alle prescrizioni, molte novità in senso restrittivo e la pratica delle visite a sorpresa pressoché quotidiane.
In realtà è chiaro da diverse fonti che il Comando Supremo decidesse in piena autonomia.
Classiche, in proposito, sembrano le suppliche e le pressioni fatte da privati cittadini o da esponenti del mondo politico locale cattolico e dal clero, per ottenere la chiusura o lo spostamento di bordelli militari aperti nei pressi degli abitati e dei paesi.
Raramente esse ottenevano riscontro. Citiamo un caso.
Mons. Luigi Pellizzo, vescovo di Padova durante il conflitto scrive papa Benedetto XV ben 146 lettere che informano il papa sulle drammaticità della situazione.
In una di queste lettere, nel luglio del 1918 scrive:
«Non descrivo, Padre Santo, lo stato morale a cui vanno riducendosi le nostre popolazioni: è più facile immaginarsi che descriversi le miserande condizioni di tanta gioventù e anche [di] madri e spose! Non mancano i parroci di vegliare né io di aiutarli e appoggiarli in tutti i modi. E a dir vero anche le alte autorità militari mi hanno sempre appoggiato, quando specialmente mi sono opposto – e fu purtroppo spesso – alla ubicazione di case di tolleranza nei paesi di campagna e di montagna. [ … ]. A Chiappano, contro il divieto del comando d’armata, quegli ufficiali avevano aperto una casa. Denunziai di nuovo la cosa: venne ordinata la chiusura immediata, e i trasgressori si ebbero la loro; così in altri luoghi. Ma ormai il malanno è tale nei paesi che non si sa quale partito prendere: e le stesse difficoltà ad ottenere, quanto un tempo a stento si otteneva, crescono. C’è, dicono, la moralità e la igiene: ecco in due parole il passaporto ad ogni nefandezza. Poi quello che amareggia maggiormente è la noncuranza quando non vi sia la connivenza delle autorità stesse preposte alla tutela della moralità, di cui sembra smarrito il concetto genuino. Basta richiamare il principio sostenuto dal procuratore di Venezia… sconfortante in bocca a un magistrato: “Lasci correre” diceva “l’immoralità è un fenomeno spiacevolissimo… adesso penseremo alla patria… a rimediare all’immoralità e ai suoi mali ci penseremo dopo”. Con questi principi e con questo appoggio dalle autorità dove andremo?» |
La situazione, insomma, a giudicare almeno dal tenore e dall’assiduità delle denunce ecclesiastiche, è sempre «delle peggiori» e non consente di ipotizzare una contrazione dei casini militari il cui numero, anzi, si ha l’impressione, ma questa è appunto una sensazione vaga e non l’effetto di una tabulazione statistica da parte nostra (del resto impossibile), che aumenti progressivamente nel corso del 1917 e dello stesso 1918.
E. FRANZINA, Casini di guerra. Il tempo libero dalla trincea e i postriboli militari nel primo conflitto mondiale, Gaspari, Udine 1999, pp. 113-117
Che tipo di collaborazione chiedevano le autorità militari ai funzionari dello Stato, a livello provinciale e comunale?
Spiega l’espressione del vescovo Luigi Pellizzo: «e le stesse difficoltà ad ottenere, quanto un tempo a stento si otteneva, crescono».
Spiega l’espressione del procuratore di Venezia: «adesso penseremo alla patria… a rimediare all’immoralità e ai suoi mali ci penseremo dopo…».
Le madri dei soldati
Solo raramente ci è dato di conoscere direttamente i sentimenti delle madri e delle mogli dei soldati semplici che erano al fronte; in genere, si trattava di donne analfabete, o comunque scarsamente istruite, che solo eccezionalmente avevano confidenza con la scrittura.
Diverso ovviamente il caso delle famiglie borghesi; in questi casi – mossi da ardore patriottico – i giovani spesso si arruolarono volontari fin dal maggio 1915 e rivestirono il ruolo di ufficiali di complemento.
Dai diari e dalle memorie delle madri, emerge che molte di loro vissero una lacerante contraddizione. Nella loro azione educativa, infatti, avevano promosso nei figli la passione per la patria; poste di fronte alla guerra vera, però, si resero drammaticamente conto di non riuscire più a sostenere e condividere gli ardori dei figli che si offrivano volontari.
A costo di sembrare egoiste o possessive, cercarono di sottrarre i figli al pericolo reale, ad esempio facendo ricorso a conoscenze nei comandi militari.
Molte lettere, pertanto, denotano un forte scontro generazionale, fra madri tutt’altro che risorgimentali e figli desiderosi di eroismo, di avventura e (forse) persino di maggiore libertà, rispetto alla tutela materna; oppure, ci troviamo di fronte a madri che ostentano in pubblico (e davanti al figlio) calma, autocontrollo, serenità e patriottismo (accettando persino l’eventualità della morte in battaglia del giovane volontario), mentre in privato sono letteralmente distrutte e angosciate, di fronte al rischio dell’uccisione, oppure disperate e tormentate dai rimorsi, in caso di decesso avvenuto.
Sul versante opposto, però, spesso incontriamo figli che vivono come intollerabile un dissidio con la propria madre e quindi le chiedono di compiere un grande sforzo di comprensione e, al limite, di immedesimazione. Oppure, nelle lettere, molti trasmettono a casa non solo inviti alla tenacia e alla sopportazione dei disagi di guerra, ma anche rabbia contro gli imboscati, i profittatori (i fabbricanti di armi o di autoveicoli, ad esempio) e i sovversivi.
A livello letterario, lo scritto di propaganda più importante fu Il figlio della guerra, di Anna Franchi, pubblicato nel 1917 (prima di Caporetto). Pur preoccupata, ovviamente, per la vita del figlio, la madre protagonista del romanzo è angosciata soprattutto dal rischio che egli sia sopraffatto dalla paura; per il resto, l’autrice si dichiara sicura che «l’opera delle donne latine dovrà essere narrata con parole di onore e di riconoscenza».
Anche Matilde Serao proclama che la madre italiana sarà sufficientemente forte da affrontare la prova della guerra, ma la sua preferenza va alle popolane napoletane, ben più che alle donne borghesi.
Luigi Pirandello però, nel dramma La vita che ti diedi, ebbe il coraggio di presentare una donna impazzita di dolore per la perdita del figlio: segno del fatto che la retorica del sacrificio per la patria, a suo parere, non colmava per nulla la sofferenza provata.
Madri e figli soldati
L’analisi delle lettere scritte a casa dai soldati permette di ricostruire i sentimenti di un’intera generazione di giovani d’estrazione borghese.
Il rapporto con la madre è in genere molto stretto, anche se non mancano le incomprensioni tra il giovane, che si è offerto volontario e rischia la vita in trincea, e la madre, preoccupata dei pericoli che egli corre al fronte.
Gli anni di guerra videro una intensificazione senza precedenti del dialogo e della comunicazione tra madri e figli, soprattutto nella borghesia intellettuale e nella piccola borghesia conquistata alle ragioni risorgimentali dell’intervento. Le autorità militari, preoccupate della censura, si trovarono a inoltrare dal fronte e per il fronte una massa enorme di posta: complessivamente la corrispondenza ordinaria tra il maggio del 1915 e il 31 dicembre 1918 raggiunse quasi i quattro miliardi di lettere e cartoline, con una media di circa tre milioni al giorno.
Si scriveva poi più dal fronte alle famiglie che dal paese al fronte.
Ovviamente non tutta questa massa di corrispondenza aveva come destinatario esclusivo le madri.
Molti gli uomini maturi anche tra i volontari e nel loro caso emozioni e pensieri erano rivolti prioritariamente a mogli e figli piccoli; tra i giovani contadini, la madre perde il ruolo di interlocutrice privilegiata a favore di una comunicazione più orientata gerarchicamente, centrata sul padre e caratterizzata da un registro comunitario e meno personalizzato.
Ma nell’universo affettivo dei più giovani, soprattutto tra quei soldati e ufficiali delle classi medie che avevano salutato la loro partecipazione alla guerra come prova virile, la madre continua a rappresentare un’interlocutrice privilegiata.
Le loro lettere offrono una vera miniera di spunti per saggiare, accanto alle ideologie di classe, al retroterra ideologico risorgimentale e ai pregiudizi diffusi tra studenti alla loro prima esperienza di allontanamento da casa e che scoprono il popolo solo nelle trincee, le forme di attaccamento alla madre e le complesse proiezioni di cui la figura materna è investita.
Le lettere sono in sostanza un sismografo quanto mai sensibile delle culture e degli stili familiari e offrono abbondante materia di riflessione sulla relazionalità intensa che caratterizza la grammatica degli affetti di molti giovani borghesi e sugli specifici linguaggi cui essa dà voce. […]
Il pensiero della madre non solo allontana dai rischi maggiori, ma nel complesso è la figura stessa della madre ad assurgere la forza protettiva in grado di difendere dai pericoli.
Per molti la madre è accanto a loro in spirito.
«Sono stati giorni brutti, mamma. Quante volte mi sei venuta davanti! Quante volte ti ho sorriso fissandoti negli occhi e nell’anima mia! Perché morendo, come credevo di morire, fossi tu negli occhi e nell’anima mia!». |
Il volto della mamma è il più potente talismano del giovane combattente, accanto alle tante medagliette, agli amuleti, agli scongiuri e alle formule magiche in cui i soldati confidavano.
Tutti i combattenti, è stato giustamente osservato, furono più o meno superstiziosi, indipendentemente dal grado di educazione e di cultura.
Simili superstizioni erano non di rado incentivate dalla sollecitudine delle madri stesse che affidavano a piccoli oggetti l’aspettativa di preservare dal pericolo il figlio. […]
In molti casi la realtà della guerra farà giustizia delle illusioni nutrite dai giovani partiti volontari e al contempo rivelerà quanto fragile sia stata la ricerca di indipendenza.
L’esperienza è, come sappiamo, monotona e massificata.
Solo il ricordo della madre, che fa tutt’uno con la casa e con una condizione precedente, rivissuta come spensierata e priva di responsabilità, rappresenta una delle poche ancore di senso cui i più giovani sembrano appellarsi per combattere l’estraniazione e porre un freno a quel restringimento della coscienza [cioè l’incapacità di pensare ad altro, se non alla sopravvivenza e ai bisogni più elementari, primo fra tutti il mangiare] che da più parti viene dipinto come condizione connaturata alla vita della trincea.
Non sembra un mero riconoscimento di circostanza l’affermazione estrema cui si abbandona Angelo Valentini, morto nei primi mesi del 1916 a vent’anni, allorché scrive alla madre:
«Se la guerra non fosse servita ad altro che a farmi sentire quanto ti volevo bene senza saperlo, solo per questo avrei motivo di benedire e di ringraziare». |
L’espansività e lo scambio non annullano del tutto alcuni diaframmi che l’ideologia borghese traccia dei ruoli sessuali: alle donne, creature più sensibili e impressionabili, è bene risparmiare gli scenari più crudi e i momenti più disumani della guerra.
Esplicita la preoccupazione di non aggravare le ansie materne da parte degli ufficiali superiori:
«Mi hanno portato stamane il diario di un ufficiale della brigata Ancona, morto al terzo contrattacco d’Oslavia – ricorda significativamente Gualtiero Castellini, giornalista e uomo politico nazionalista – non lo manderemo a sua madre [ … ]. O madre piangi il tuo figliuolo, ma senza sapere a quali abissi di dolore, senza perdere la sua fede sia giunto… Verità, verità, perché scriverti sempre?». |
Ritroveremo l’identica preoccupazione nella seconda guerra mondiale in Nuto Revelli, sopravvissuto alla ritirata della Russia, al momento di incontrare le madri dei compagni caduti.
Ogni regola ha però le sue eccezioni.
Attacchi, scontri, mischie non sempre vengono risparmiati alle madri per ingenuo desiderio di mostrare il proprio coraggio.
«Tutti guardavano a me, mamma erano tutti al riparo alla meglio, io solo ero allo scoperto perché solo così potevo tenerli uniti e impedire che si sbandassero e abbandonassero la linea sulla quale dovevamo per consegna resistere o morire». Eugenio Garroni, alpino promosso comandante sul campo |
M. D’AMELIA, La mamma, il Mulino, Bologna 2005, pp. 183-187
Per quale motivo, secondo te, si scriveva di più dal fronte alle famiglie che dal paese al fronte?
Che ruolo svolgeva il pensiero della madre, nelle superstizioni assai diffuse tra i soldati?
In che misura gli aspetti più brutali della guerra erano comunicati alle proprie madri o a quelle dei soldati rimasti uccisi?
La guerra dei simboli
La retorica della madre interamente dedita alla patria, fino all’accettazione del supremo sacrificio del proprio figlio, ebbe un’importante consacrazione, nel dopoguerra, in occasione della cerimonia di scelta del Milite ignoto. Mentre in Francia e in Inghilterra la salma del soldato senza nome fu scelta da un sergente o da un ufficiale, in Italia fu deciso che a sceglierla fosse una madre che avesse perduto il figlio in guerra.
La cerimonia avvenne ad Aquileia, la donna era una popolana di Trieste (Maria Bergamas); la salma fu tumulata nell’Altare della Patria, a Roma, il 4 novembre 1921.
Madri e guerra furono strettamente associate, a livello simbolico, anche in tantissimi monumenti ai caduti. A volte, la raffigurazione si rifaceva alla Pietà di Michelangelo; in altri casi, il compianto avveniva dinanzi a un soldato sdraiato a terra, oppure la donna stringeva a sé il caduto in un ultimo abbraccio.
Come ogni simbolo, anche questo poteva sostenere vari significati; la donna, infatti, poteva essere l’Italia, che piangeva e rendeva onore ai suoi figli, oppure una madre che aveva accettato con coraggio e determinazione l’estremo sacrificio.
Questa molteplicità di significati riappare anche nella propaganda di guerra rivolta ai soldati; in genere, si trattava di fogli o riviste illustrati.
Dopo Caporetto, una delle immagini più frequenti presentava il soldato italiano che difendeva una donna dall’assalto di un austriaco, che si stava avventando su di lei. Il doppio senso era evidente: l’occupazione delle province invase (e, a maggior ragione, l’eventuale sconfitta) erano presentati come uno stupro, compiuto da un nemico bestiale, a danno della patria.
Nel medesimo tempo, il soldato era chiamato a difendere le donne italiane dagli oltraggi che sicuramente avrebbero inferto loro i nemici.
Si trattò, senza dubbio, di una propaganda molto efficace; infatti, non solo parlava un linguaggio facilmente comprensibile anche ai soldati scarsamente alfabetizzati, ma soprattutto ridonava sicurezza e stabilità nei ruoli di genere, in un mondo che vedeva rapidi cambiamenti: donne al lavoro, donne in divisa, donne impegnate in attività tradizionalmente maschili.
Dal loro contributo di lavoratrici e di patriote, le donne italiane si attendevano un riconoscimento.
Consapevole delle aspettative femminili, il Parlamento approvò nel 1919 un’importante modifica al diritto di famiglia, cioè abolì la cosiddetta autorizzazione maritale, ereditata dal Codice civile napoleonico.
Fino a quel momento, in base agli articoli 134 e 137 del codice civile del 1865, la moglie non poteva disporre liberamente dei propri beni: quindi, non poteva compiere alcuna operazione di compra-vendita senza il preventivo consenso del marito.
La legge del 17 luglio 1919 non solo abolì tale prassi giuridica, ma aprì alle donne la possibilità di esercitare le professioni liberali, come, ad esempio, l’avvocatura.
Inoltre, la medesima legge permise alle donne di accedere agli impieghi pubblici, anche se, di fatto, esse restarono a lungo escluse da qualsiasi posizione dirigenziale.
Nessun progresso, invece, venne fatto sul terreno della concessione del diritto di voto. Nel 1920, un progetto di legge relativo al suffragio femminile venne approvato dalla Camera a larga maggioranza; il governo presieduto da Francesco Saverio Nitti, tuttavia, cadde prima che il Senato potesse esprimersi in ordine alla questione.
Nel giugno 1920, il nuovo presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, abbandonò il problema del voto alle donne, in quanto era convinto che di esso avrebbero beneficiato solo i cattolici e i socialisti, cioè quei partiti di massa che, secondo il suo giudizio, erano i veri responsabili della crisi dello Stato liberale tradizionale.
Così, solo nel 1946 le donne italiane avrebbero visto riconosciuta la loro piena cittadinanza e avrebbero potuto esercitare il loro diritto di voto.
Per onorare tutti i caduti italiani, nel 1921 furono portate ad Aquileia (nell’attuale provincia di Udine) undici salme di soldati sconosciuti morti in vari luoghi del fronte.
La storia di Luisa Spagnolli – imprenditrice italiana
Luisa Sargentini nasce il 30 ottobre 1877 a Perugia, da Pasquale Sargentini, di professione pescivendolo, e da Maria, casalinga. Sposatasi, poco più che ventunenne, con Annibale Spagnoli, rileva con il marito una drogheria, all’interno della quale inizia a produrre confetti.
Nel 1907 gli Spagnoli si associano alla Buitoni, azienda locale che produce pasta e aprono, insieme con Francesco Buitoni, una azienda dolciaria di piccole dimensioni, con una quindicina di dipendenti, nel centro storico della città umbra: è la Perugina.
La fabbrica viene gestita unicamente da Luisa e dai suoi figli, Aldo e Mario. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando gli uomini sono chiamati al fronte, Luisa prende in mano le redini dell’azienda e la fa crescere ulteriormente. Donna intraprendente e illuminata riesce a portare grandi innovazioni, tanto che quando il conflitto termina, la Perugina ha più di cento dipendenti ed è una fabbrica di successo.
Al ritorno della guerra, a causa di attriti interni, Annibale abbandona l’azienda nel 1923. In questo periodo Luisa inizia una storia d’amore con Giovanni, figlio del socio Francesco Buitoni, più giovane di lei di quattordici anni.
Il legame tra i due si sviluppa in maniera profonda ma estremamente cortese: le testimonianze in proposito sono poche, anche perché i due non vanno mai a convivere.
Luisa, entrata nel frattempo nel consiglio d’amministrazione dell’azienda, si dedica all’ideazione e alla realizzazione di strutture sociali finalizzate a migliorare la qualità della vita dei dipendenti; poi, poco dopo aver fondato l’asilo nido dello stabilimento di Fontivegge, stabilimento ritenuto, nel settore dolciario, il più avanzato nell’intero continente europeo, dà vita al “Bacio Perugina”, il cioccolatino destinato a entrare nella storia.
L’idea nasce dall’intenzione di impastare i resti di nocciola derivanti dalla lavorazione dei cioccolatini con altro cioccolato: il risultato è un nuovo cioccolatino con una conformazione piuttosto strana, con al centro una nocciola intera. Il nome iniziale è “Cazzotto”, perché il cioccolatino richiama alla mente l’immagine di un pugno chiuso, ma Luisa viene convinta da un’amica a cambiare quella denominazione, troppo aggressiva: molto meglio tentare di conquistare i clienti con un “Bacio”.
L’ispirazione per l’immagine scelta per pubblicizzare il cioccolatino viene da un celebre quadro di Hayez “Il bacio”.
Nel frattempo, Luisa si dedica anche all’allevamento del pollame e dei conigli d’angora, attività iniziata al termine del primo conflitto mondiale: i conigli vengono pettinati, non tosati e tantomeno uccisi, al fine di ottenere la lana d’angora per i filati. E così nel giro di breve tempo vede la luce l’Angora Spagnoli, situata nel sobborgo di Santa Lucia, dove si creano indumenti alla moda, boleri e scialli. Il successo non tarda ad arrivare (complice una segnalazione anche alla Fiera di Milano), e così gli sforzi si intensificano: ben ottomila allevatori spediscono il pelo ottenuto da circa 250 mila conigli a Perugia via posta, in modo che possa essere trattato e utilizzato.
Luisa muore all’età di 58 anni il giorno 21 settembre 1935, a causa di un tumore alla gola che l’aveva indotta a spostarsi a Parigi per provare a ricevere le migliori cure possibili.
Gli anni Quaranta regaleranno agli Spagnoli numerose soddisfazioni, così come ai loro dipendenti, che potranno contare addirittura su una piscina nello stabilimento di Santa Lucia e su regali di valore per le vacanze di Natale, ma anche su feste, casette a schiera, partite di calcio, balli e nursery per i figli.
Ma Luisa non potrà mai vedere tutto ciò.
L’azienda creata da Luisa diventerà, dopo la morte della fondatrice, un’attività industriale a tutti gli effetti, e sarà accompagnata dalla creazione della “Città dell’angora”, uno stabilimento attorno al quale sorgerà una comunità autosufficiente, e il parco giochi della “Città della Domenica”, chiamato in principio “Spagnolia”.
Fonti
- F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
- https://it.wikipedia.org/wiki/Luisa_Spagnoli
- https://biografieonline.it/biografia-luisa-spagnoli
- Il film sulla vita di Luisa Spagnoli:
- https://www.raiplay.it/video/2016/06/LUISA-SPAGNOLI—STAGIONE-1—EPISODIO-1-9baae373-9b19-4023-9f97-b4f358da0e9a.html
- Link scena tratta dal film Luisa Spagnolli
- https://drive.google.com/file/d/13ErC7yzyX5iL8ibVrEjJk_rYcRY9z_eX/view?usp=sharing